Viola, nel pensiero

(Oggi).

Oggi, Viola ha trentanni. E se fosse possibile nell’aria ci sarebbe una musica un po’ folk, allegra da ballare, una cosa tipo: Heaven of my heart di Jim White, quando canta shanannannanna, cioè dice –cantate insieme a me-

Cantiamo, dunque. Auguri, Viola.

(Molti anni dopo).

Non saprei dire cosa mi teneva lontano da lei.

Quando vai per mare non puoi non tener conto del vento. Il vento, spesso, è la ragione di una terra mancata, quando la sfiori soltanto, con gli occhi, e la ragione d’andare si fa più forte, necessaria.

Ma forse è solo una metafora del cazzo.

Non saprei dire, insomma.

Non ricordo più se c’era la nebbia quella sera. La città era affranta per la pioggia infinita dei giorni precedenti che aveva gonfiato il fiume fino a farne una minaccia nera. L’acqua era montata a dismisura e sfiorava con reverenza i bordi dei ponti più antichi, appena più in basso degli angeli di pietra del Castello, guardiani severi. Quasi una gioia per i turisti e i loro giocattoli luccicosi a catturare un ricordo, un brivido, e se vuoi, anche una scusa per i ricordi di qualche vecchio del ghetto, che, però ai suoi tempi l’acqua era arrivata fin su in bottega, e ti additava una linea immaginaria, presso un muro morto, dove ora dormiva l’edera, paziente e ignara, come quel gatto in cima.

Ero evaso per tempo dal mio lavoro di codici minuziosi ed esatti come orologi, avevo respirato forte, e attraversato la città da parte a parte, con una traiettoria a diametro sghembo, accorta, a sfiorare soltanto il traffico del fottuto sottonatale.

Un percorso a memoria e qualche insulto automobilistico creativo, ora all’inevitabile anziano con cappello (-non è un paese per vecchi, nonno-), ora al turista straniero intontito in mezzo a un incrocio come una lepre inchiodata dai fari (-terrone-, perché è targato Milano), ma sto divagando.

Forse non c’era nebbia ma mi sentivo come Bogart, un nodo alla gola e il mondo in bianco e nero.

Ero in anticipo rispetto alla vaga promessa dell’appuntamento. Gironzolavo fra i banchi chiusi del mercato e gli odori dolciastri della frutta all’ammasso. Di tanto in tanto alzavo gli occhi alla finestra aspettando che un’ombra dietro si facesse segnale e nel frattempo pensavo solo a voler fuggire, e al perché non riuscissi a spiegarmi cosa mi teneva lontano da lei, e se mai Bogart avesse avuto così paura, in quel suo mondo di uomini spietatamente mai indecisi. Pensavo insomma che il mio sceneggiatore non stesse facendo un granché il suo mestiere. E questo dovrebbe far sorridere.

Quando il tempo in anticipo si fece quasi tempo esatto mi decisi per la scena successiva. Il telefono brillò al buio fino a raggiungerla, due piani più in alto, fino alla sua voce che, ignorando le mie miserabili scuse sul prudente anticipo, ormai consumato, a sorrisi aprì questa piccola storia alla sequenza seguente:

-Sali, sono sola-.

Riuscivo a vederla sorridere anche solo ascoltando la sua voce.

A passo di danza salire le scale, si dice. Mentre la nebbia immaginaria, la pioggia, il mondo in bianco e nero rimaneva due piani più in giù, e il vento che ti tiene lontano si acquietava insieme alla paura e tutto, tutto, scompariva in quel sorriso, la promessa d’oro di quegli occhi. E quel maledettissimo dannato vestito viola.

Perché, dovete sapere, Viola è viola. Non è uno scherzo. Non lo avevo notato subito, quando la conobbi. Viola non parlava molto, perlomeno non in mia presenza. Il sorriso e gli occhi bastavano al mondo. E il mondo era felice. Una volta le avevo chiesto la ragione del suo silenzio, e ne avevo ricevuto silenzio in cambio. Ovvio. Che stupido, avevo pensato, ma lei sapeva che avevo capito. Esiste un silenzio quieto che aspetta. E aspetta che qualcuno si accorga. Non è affatto facile in un mondo colmo di clamori. Ma Viola, in silenzio, aspettava.

Dicevo che Viola è viola. Nel senso che dopo qualche tempo che la conoscevo mi ero accorto di qualcosa di viola che le si poteva vedere addosso, sempre. A volte era una sciarpa, o una maglia morbida che le scopriva il collo, ma anche se non c’era nulla, qualcosa di viola c’era, in Viola. Probabilmente uno spicchio delle iridi, a saperla guardare abbastanza a lungo. Ma io non ci sono mai riuscito. Se la guardavo negli occhi, cosa che durava solo per brevi istanti, smettevo di respirare. Azione e reazione. E quando riprendevo a respirare, anche se l’aria mi era mancata per pochi attimi, sembrava che non respirassi da secoli. Curioso. Non ho mai saputo esattamente di che colore fossero i suoi occhi. Ricordo il verde e l’oro, e probabilmente il viola. Quindi Viola era viola, sempre.

Quella sera Viola era tutta viola. Completamente. Un vestito morbidissimo e caldo che la fasciava, caldo sotto le mani quando con delicatezza la toccai appena intorno ai fianchi per salutarla, e scusarmi brevemente di tutto quel tempo perso dall’ultima volta, e brevemente guardarla negli occhi.

Non ricordo molto altro, una conversazione silenziosa in uno studio generoso di silenzio, un posto con del legno caldo a terra. Ogni volta che andavo a trovarla pensavo che una casa tranquilla con del legno per pavimento e dei libri alle pareti e un sorriso come quello di Viola rappresentavano la condizione sufficiente per una certa idea di felicità. Così, senza giri di parole.

Non ricordo molto della conversazione, si era sotto Natale, si scherzava del mondo, della comune fede rossa, le chiesi del suo lavoro e ne ricavai dei lampi di rabbia, la rabbia di Viola che conoscevo per essere anche la stessa mia. Ricordo le sue mani strette di rabbia. Ricordo i suoi occhi, a lampi.

Per questo la cercavo, sempre. Per questo non riuscivo a stare per troppo tempo lontano da lei.

Per riconoscere le somiglianze reciproche. Per respirare forte al pensiero di –Dio, cazzo, qui siamo uguali.- Ogni volta era una liberazione. Se cresci col pensiero esatto che nessuno al mondo è come te è in questi momenti che pensi che davvero Dio esiste e li usa sul serio i fottuti stampini, se non per tutto almeno per delle piccole porzioni di anima. Dio è stronzo, si sa.

Ecco, la rabbia di Viola era uno dei motivi per cui tornavo a cercarla. Egoismo. Forse.

Aver visto quella rabbia era sufficiente. Fino alla prossima volta che l’avrei cercata. Viola non mi cercava mai. Se ne stava in silenzio. Una volta avevo fatto il pensiero di chiederle il motivo. Ma avevo rinunciato.

Uscimmo insieme. Non ricordo se c’era ancora la nebbia. Nè se c’era mai stata. Il viola del vestito era scomparso nel suo cappotto, e il mondo in bianco e nero aveva ripreso il sopravvento. Le raccomandai di non perdersi. Viola non rispose ma fece un gesto, mi accarezzò i capelli delicatamente, dietro la nuca, un gesto leggerissimo che la mente non registrò subito. Lo fece così delicatamente che non me ne accorsi neanche, se non molto più tardi, a casa.

(Oggi).

Ecco, Viola è così, nei miei pensieri, quando penso a lei. Col suo silenzio, il sangue rosso, la rabbia e quella delicatezza che solo il vento sa essere, quando è necessario.

(Liberty City, may eleven 2127)