Liberty City, 2126 may eleven.

La Città sembra aver smesso la pioggia nera della notte come con una specie di distratto inchino proprio dei gentiluomini sconfitti. E magari l’aria avesse il senso olfatto di zucchero filato, per dire, che so, di liquirizia rosa, e una musica a girare intorno di pifferi e zingari, una cosa un minimo teatralmente più adatta al tempo di maggio che accompagna queste parole.

E invece no.

Il fiume, sotto al ponte, taglia il mondo come fosse un meridiano zero, da una parte i brillocchi del quartiere de Las Luces, roba da ricchi. Più oltre, sull’altra sponda, il resto del mondo. Le chiatte sull’acqua sono quasi un continuum, dodici metri l’una di colma melma immondizia, ciascuna con lo svolazzo attorno di una gang di gabbiani spettrali, una processione lenta verso l’estuario del nulla, alla fine del fiume, in fondo alla notte.

Apparentemente non sembra ci sia il margine sufficiente per una storia.

Se non fosse per un paio di fiammanti, minuscole, scarpe Minitzuka Cyb, inconfondibili al buio per via del soffuso bagliore azzurro che sprigionano ad ogni passo, o balzo, o scatto nervoso, il tutto modulato secondo la corporatura e l’umore dell’altrettanto minuscolo e orgoglioso proprietario che intenzionalmente è sfuggito alla sorveglianza di papy e mamy, e che ora, per gioco, –sciack!- -fanculo!- -sciack!- -fanculo!- si gode la semilibertà clandestina ammazzando le pozzanghere con un balzo e un’esclamazione da grandi, accuratamente distribuiti.

La notte e la città non sono posti da bambini. Ma questa è la storia.

Il ponte sarà lungo mille chilometri, almeno secondo la topologia immaginaria del piccolo, che spinge uno sguardo astuto da kung fu a studiare il prossimo balzo ammazzanghero, -sciack!- -fanculo, questa era grossa!- e per poco non sbatte il muso contro un lampione per aver sbagliato di un zic la traiettoria. Si regge con una mano, riposa, studia lo spazio intorno, ascolta il silenzio.

Poi. Un rumore leggero, secco, deciso. Appena percettibile. E più nulla. E il cuore da leone che soffoca di tonfi sordi. Il piccolo attende. Ancora uno, da una direzione definita, appena più in là, nell’ombra.

E dentro all’ombra un’altra piccola ombra, contro il parapetto. Ferma. In apparenza innocua. È da lì che arriva il rumore, è il pensiero.

Le Minitzuka sono scarpe da guerrieri coraggiosi, recita la voce suadente al neon blu di tutti gli oloinduttori alla moda, questo servirà a qualcosa. È così bello dar retta al proprio coraggio, pensa inavvertitamente il piccolo, mentre decide un passo adulto e tranquillo verso l’entità che il buio nasconde, ancora per un istante sospeso, al bambino curioso, al mondo, a questa storia.

-Sptuh!- è il suono, distinto, ora.

La bambina è sospesa al parapetto, scalza, si regge sui gomiti e guarda in basso, assorta. Il vento leggero le scompiglia con rispetto i capelli lunghi che, nonostante il buio, hanno il colore del grano giovane. I piedi nudi penzolano nel vuoto, le caviglie incrociate strette con grazia, le gambe magre increspate dal freddo immaginario del ricordo della notte di maggio che vide questa storia.

-Sptuh!-

Sputa. Assorta.

Il piccolo guerriero, stupefatto dalla visione, farebbe come il gesto di dire qualcosa, aprendo appena la bocca e fidando allo stesso tempo in un qualche dio, una volta tanto un pò meno distratto,

sperando che,

che quell’istante,

che quell’istante fatto di vento

e pioggia smessa

e luci tremolanti all’orizzonte dei ricchi

e vento rispettoso che scompiglia i capelli color del grano giovane

e piedi nudi e caviglie incrociate con grazia

e gambe appena increspate di freddo,

sperando che quell’istante duri per sempre.

È durante il tempo senza fine di questo pensiero che la bambina volge il capo, di un movimento ad arco appena sufficiente a svelare gli occhi al mondo in attesa.

Due infinitesimi frammenti di brace d’oro verde, scuro e luminoso, due stelle contro il cielo nero. Due stelle gemelle.

Guarda e non parla.

Poi rivolge ancora il volto alla notte e al fiume e dopo un istante:

-Sptuh!-

Sputa.

E di questo gesto, che inclinerebbe il lettore a un sorriso se lo scenario fosse di un pomeriggio celeste d’aprile, il mondo riprende a respirare e il tempo a scorrere di pari passo al fiume. Il piccolo guerriero completa il movimento di stupore di cuore e bocca, poi raduna il coraggio di affrontare il senso di quegli occhistelle, per dire, domanda sciocca:

-Che fai?-

Senza immaginare il primo sorriso che la bambina, di nascosto, gli regala, prima di rispondere con aria seria:

-Non lo vedi? Sputo.-

-Sputi nel fiume?-

-No. Sputo agli angeli.-

Il bambino non crede. E si avvicina arrampicandosi con naturalezza al fianco di quei capelli color del grano giovane. Guarda in giù.

-Quelli sono solo gabbiani.-

-No. Sono angeli. Hanno le ali.-

Il bambino ci pensa. Poi ammonisce di un’eco materna che gli suona in testa:

-Non sta bene sputare agli angeli.-

-Lo so-, dice lei. E sputa.

Poi si lascia scivolare a terra con un sospiro e si accoccola sui talloni con aria pensosa abbracciandosi le gambe e posando il mento sulle ginocchia.

Il piccolo guerriero pare sollevato e la imita con un balzo atterrando sulla punta delle MiniCyb che sospirano di una luce azzurra soddisfatta.

-Perchè sei scalza?- domanda con un tono accorto e delicato.

-Avevo caldo. Perciò ho regalato i miei stivali a un gatto che passava.-

E sorride di quella bugia nera, colpevole, ci prova. Ad annegare il mondo, il piccolo guerriero, gli angeli, la notte, il fiume che scorre da nulla a nulla dentro alla luce dei suoi occhi sorridenti, verdi, scurissimi a bagliori d’oro. Ci prova a nascondersi di vergogna dietro a un sorriso impossibile.

Poi, senza dar tempo a chi legge questa storia, a chi la sta scrivendo, a chi vorrà ricordarla per sempre di immaginare altro, null’altro, neanche una briciola di fottuta morale, chiede:

-Oggi è il mio compleanno. Mi faresti un regalo, piccolo guerriero dalle scarpe orribili?-

Il bambino le sorride, infila le mani nelle settecento tasche dei pantaloni da guerriero banzai, le rivolta spargendo a terra un miliardo di cianfrusaglie inutili a uno sguardo adulto, ci pensa, poi sceglie un binocolo di plastica e due pennarelli fluorescenti, disegna un puntino splendente su ciascuna lente, uno blu e l’altro arancio. Infine porge il regalo alla piccola regina, che lo punta al cielo con un sorriso. A guardare le due stelle gemelle, le uniche contro il cielo vuoto.