Lo odiavo quel nano di merda.

Per il mondo era un genio, da guardare a boccaperta, come se quel palleggiare mille volte da foca ammaestrata avesse mai santificato qualcuno, o alleviato un dolore qualsiasi.

I compagni in campo gli davano la palla e poi si fermavano incantati a guardarlo giocare, lui e quel suo culo elefantesco che i giornalisti epici e untuosi definivano “baricentro basso”.

Cazzate.

Io lo odiavo e lo avrei distrutto. Bastava aspettare l’occasione giusta.

E siccome Dio esiste ed è buono e saggio quel giorno arrivò davvero.

Il nano aveva addosso la sua ridicola casacca a strisce bianche e celesti e quel fottuto numero dieci sulla schiena, stava da sempre coi miserabili del mondo.

Dall’altra parte le divise bianche immacolate di spocchia dei caproni imperialisti, zucconi idioti di qualsiasi fantasia e geometria. Picchiatori.

Era più che una partita, era la rivincita di una guerra.

In mezzo al campo, immobile, io, la mia divisa nera, il mio fischietto e un ghigno dentro.

E davvero non seppi come credere ai miei occhi l’istante in cui il nano maledetto, su una palla innocua si arrampicò fino al cielo, più in alto del portiere attonito e spinse la palla dentro alla porta. Con la mano.

Un miracolo, il mio.

Finsi meravigliosamente di non aver visto e fischiai il gol.

Il mondo intero lo avrebbe odiato da allora in poi. Altro che genio. Avevo vinto. Per sempre.

Il nano schifoso mi fece un sorriso strano passandomi accanto, come a ringraziarmi, ma ne ricavai solo un brivido.

Dopo appena due minuti, infatti, il nano rubò una palla morta nelle infinite profondità delle retrovie e se ne volò verso la porta avversaria inchiodando a uno spaziotempo immobile, impotente, l’universo intero. Scartò mille avversari, scartò il suo destino, correndo una corsa senza tempo, irresistibile e bellissima.

Fece il gol più bello da che il mondo era esistito.

E il mondo, che ha così poca memoria, gliene fu grato. Il boato che ne seguì non si spegnerà mai più. Qualche volta mi sveglia ancora di notte.

Alla fine della partita lo vidi avvicinarsi a me, trotterellava sorridendo e sembrava felice.

Senza la minima traccia di odio mi sussurrò la lezione: – Jefe, vedi quest’erba verde, vedi quelle quattro linee bianche? Qui dentro è la libertà senza destino. Qui sono io il padrone. –

“…se si pensa che l’àrbitro è un uomo libero, perché può decidere le sorti di una partita di calcio, e anche un arbitro libero fornito di libero arbitrio è beffato magistralmente dal libero arbitrio del destino di un uomo altrettanto libero, ma non arbitro.”