Sembrava una sera qualunque, invece era l’ultima.
Ero annoiato e volevo una donna.
Scesi in strada e guardai la solita umida notte che aveva appena bagnato l’asfalto.
La sigaretta l’avevo spenta poco prima di chiudere la porta, ne accesi un’altra al pensiero di dover andare in Viale delle Gardenie.
Alla radio passavano un pezzo degli anni cinquanta, mi apparve in una visione James Dean con la sua macchina rossa fiammeggiante e la sigaretta di traverso che fumava spavalderie.
Io, un uomo solo, con una cicca mezza nera che andava a cercare una puttana per passare la notte.
Cambiai stazione.
In Viale delle Gardenie tutto come al solito.
Mi accorsi di lei poco dopo, mai vista prima.
Vestita come le ragazze dei film, foulard legato in testa, gonna larga a campana fino sopra le caviglie, seno prosperoso che finiva a punta.
Pensai al mio James.
Conservai intatto il mio cinismo, nascondendo a me stesso le sfumature della mia mente infinitamente colta di trappole.
Lei aprì lo sportello e saltò in macchina felina.
Aveva l’aria di una che andava al mare.

– E’ passata la pattuglia stanotte?

chiesi senza interesse

-…vuoi che ci fermiamo al parco che costeggia il muro?…

Uno strano volto colpevole le fermò il sorriso.

-Io mi chiamo Iris

Ci fu silenzio.
Non sapevo dire altro.
Sentivo che aspettava una risposta con ansia ad una domanda che nessuno aveva mai fatto.
Io, smarrito con tutto il maschilismo.
Lei mi imbarazzava.

-Mi porti a casa tua?
Puoi?
Sto con te tutta la notte…

Scanzonata e sacra, mi guardò penetrandomi magistralmente.
Scoprii che aveva gli occhi blu.
Che mi impedirono di respirare una boccata di fumo.
Un idiota.
Io, in quel momento.

-…la stessa cifra tutta la notte

sottolineava candida.

Ubbidivo, sorpreso, spaesato, sordo, maledicendo la curiosità morbosa e perversa che mi assorbiva totalmente per qualcosa che non comprendevo.

Lei saliva le scale davanti ai miei occhi maschi, intravedevo come un ladro la forma delle sue mutande dalle pieghe della gonna, che danzavano con le anche sinuose.
Pensai che mi fossi sbagliato, che quella donna non era una prostituta, che si trovava lì per caso, che si era avvicinata alla mia macchina per dimenticare un amore, o forse per vendicarsi di un amore.
Mi sentivo ingannato come un amante ferito, ma dal nulla più assoluto.
Eppure lei era lì per fare l’amore con me?
La avrei aggredita appena entrati in casa, senza neanche accendere la luce, anzi, la luce sì, io voglio vedere.
L’avrei girata da dietro, contro il muro come mi piace di più, le avrei sfilato quel ridicolo foulard e quella gonna arrugginita, l’avrei posseduta come l’animale che dopo muore.

-Posso fare una doccia, per favore?

mi sorprese con un sorriso.
L’umana certezza della mia normale e piccola vita si confondeva senza preavviso nella sua richiesta ignara delle mie volontà.
Così muto, ascoltavo l’acqua della doccia scorrere liquida e misteriosa.
La birra che tenevo nella mano si surriscaldava con il vapore che usciva dalla porta socchiusa.
Nuda e bagnata, senza quelle mutande inesatte che avevo ipotizzato appena, senza il profumo artificiale d’ambra che le leccava la pelle.
Volevo vedere quanto erano lunghi i suoi capelli senza il foulard, volevo vedere le sue gambe che non si vedevano.
La sagoma della sua pelle rosea si intravedeva dal vetro opaco, si muoveva insieme all’acqua.
Esitai di fastidio nell’estraneità di un corpo nuovo nel mio territorio.
Mi spogliai dei miei vestiti e mi feci spazio accanto a lei.
I suoi occhi blu mi sorrisero dello stesso strano sorriso.
Mi baciò sulle labbra chiudendo gli occhi come un’amante ritrovato.

Non sapevo quanto durasse la notte, la sua, quella del contratto.
Avevo deciso di usare tutto il tempo che mi fosse concesso, finché avesse senso, finché fosse presente e viva la dignità di me stesso.

-Tu che fai quando vivi?

chiese, diafana.

-Scrivo

-Cosa scrivi?

-Non lo so, scrivo

-Mi regali una Storia?

Il mio sguardo si accendeva di rabbia.

“…Tu fai sempre così Iris?
Tu fai sempre tutte queste domande?
Tu ti infili sempre a casa di chiunque?
Tu guardi sempre tutti come stai guardando me?…”

Ma non lo dissi.
Lei si sentì osservata, in debito di un dubbio.
Pensai a me stesso come quando si vivisezionano i ricordi, mentre Iris andava lenta verso i miei libri disposti sulla mensola di legno, scostando l’accappatoio dalle gambe magre e mostrandomi senza dichiarazioni autentiche la sua provocazione scarlatta.

-Mi regali una Storia per sempre?

Era minuta e indifesa, sola e senza meta, colta da una curiosa abissale emozione livida.
La presi tra le braccia come si tocca una Mantide Religiosa, lasciai che l’accappatoio scivolasse via, ricominciai a fare l’amore, randagio e torbido.

Respirai qualche minuto di solitudine.
Ritrovai Iris sul pavimento della mia cucina, accovacciata e immobile, il blu fissava un vuoto nel muro.

-Sono soltanto le tre,
fuori é ancora molto buio,
vuoi che vada via?

Mi sembrò la domanda più difficile della mia vita.
Mi accovacciai sul pavimento con lei.
Le colsi una lacrima segreta che fuggiva dal mento.
Mi venne l’istinto di accarezzarle il viso.

-Ho venduto il mio corpo a tredici anni,
a mio padre.
Papà comprava tutto,
anche l’amore di mia madre.
Le vedevo uno strano velo bianco che la rendeva cieca.
Io sapevo cosa fosse.
Non riesci più a vedere le cose
come realmente sono,
cambiano i colori di tutto quello che guardi,
non puoi più distinguere il buono dal cattivo,
il bello dal brutto,
il giusto dall’errore.
Ogni cosa diventa parte di tutte le cose,
e modificarle non spetta a te.
Senza vita dentro,
senza occhi per vedere,
non potresti…

Mi mancava l’aria.
Iris parlava e non si fermava più.
Non si fermò neanche quando ebbi l’urgenza di una sigaretta, di un’altra maledetta birra.
Avevo lo stomaco che pulsava.
Mi chiedevo cosa ci stessi a fare sul pavimento della mia cucina a parlare tutta la notte con una prostituta, o con un’amica sfortunata, non lo distinguevo più.
Pensai alla Storia che potessi regalarle.
Parlava di economia, ma di quell’economia che si scambia con le anime degli uomini e delle donne del mondo, qualcosa che forse Iris avrebbe compreso molto meglio di qualsiasi critico o professore.
Mi si avvicinò con lo sguardo perso di gratitudine e commozione, si inginocchiò ai miei piedi con la sua sensualità accecante e insospettabile, seppe ringraziarmi adeguatamente.
Come una deliziosa economista.

Le cinque.
Mi sentivo esausto.
Neanche avessi lavorato dodici ore.
Ma la sensazione era la stessa.
Avevo Iris tra le braccia, non mi ricordavo come ci fosse capitata.
Dormiva.
Provai a muovermi e il suo blu tornò ancora sulle mie volontà acerbe e tese.

-Ti do i tuoi soldi Iris, ora,
prima che mi addormenti ancora

Le posai i soldi sul comò, le diedi il doppio di quanto avesse chiesto, le diedi anche quelli del taxi, per tornare indietro.
Indietro, se avessi potuto tornarci anch’io.

Le sette e mezza.
Spiavo Iris che si rivestiva.
Facevo finta di dormire ogni volta che lei si girava per guardarmi.
Si ricompose i capelli nel foulard, intrappolandoli per sempre alla mia vista.
Non mi ero mai addormentato.
In realtà l’avevo guardata tutto il tempo respirare.
Non ci avevo mai pensato, non avevo mai provato emozioni per un essere che si limita a far finta di vivere.
Avrei voluto salutarla ma mi accorsi che non ne ero capace.
La immaginavo rimanere come una corda sospesa nel vuoto, come quegli equilibristi pazzi, che non scendono dal cielo.

“Sei stata bene?”…
“Vai via?” …
“Ci rivediamo?”

Che parole idiote.
Richiusi gli occhi convinto.
Tentai ancora di cucire insieme due sillabe storpie ed elementari, apparvero cibo per gli avvoltoi delle mie incapacità.
La verità era stretta nel mio orgoglio, una infinita e diabolica paura della solitudine immensa che avrei provato se soltanto avessi tentato di dire addio.
Provai odio e pena per me stesso.
Ancora un poco, e lei tornava nel silenzio di se stessa, di nuovo la mia creatura irraggiungibile per il tempo di un altro sogno, di un altro desiderio.
Iris richiuse la porta dietro di sé.
La ascoltai attraversare il pianerottolo, scendere le scale senza scarpe, contai tutte le volte che i talloni rumoreggiarono infantili fino a scomparire nel silenzio.
Pensai che la mia notte fu lunga e difficile e che avrebbe avuto bisogno di pensieri tristi da scrivere.
Ma non lo feci.
Sull’armadietto del bagno trovai un biglietto di Iris, le sue parole scritte con il verde pastello dei trucchi.

“Ero io che ti guardavo
dietro i tulipani del mio giardino,
ero io che speravo
di incontrarti sull’autobus ogni mattina,
ero io che scrivevo
lettere sotto il banco di scuola,
ero ancora io,
la dama del ballo di Carnevale che ti baciava..
Sarebbe stato doloroso
guardarmi adesso”

Giulia.

I soldi erano lì, erano tutti, non si era ripagata neanche il taxi.

Una sola volta sono tornato in Viale delle Gardenie da quella notte.
Non la ritrovai mai più.
Io, preferisco credere che Iris non esista.
Mi piace pensare che Giulia fosse capitata in Viale delle Gardenie per caso, che mi avesse soltanto riconosciuto e avesse provato a fingere.
Ma a volte la tristezza mi invade le ossa.
E non riesco più a mentirmi.

Dicono che le Anime si rincontrano nelle molte esistenze per potersi dire l’ultima parola che mancava, quella non pronunciata.
Io e Giulia avevamo avuto due occasioni, in questa vita, e due sono molte per dei mortali.
Le abbiamo perse entrambe.

Era la mia ultima notte.
Era la mia ultima donna.

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A tutte le parole mai dette.
Alle Storie senza inchiostro.
All’Inverno che ha scritto con me e che ringrazio.
Al coraggio di scrivere.
A tutte le Iris dei Viali Gardenia del mondo, ce n’è una in ogni città.
Basta guardare.