(*)

l’ipermercato è un monolite di vetro nero che assorbe il sole di periferia con la noncuranza indifferente propria delle leggi naturali. mentre l’auto gli gira attorno e si inabissa nel parcheggio sotterraneo, l’autoradio del cazzo sputa herewithoutyou dei 3doorsdown, una ballade da periferia, se vogliamo, il deserto intorno c’è tutto, ci aggiungo qualche pensiero da confine, pomeriggio e sole basso. potrebbe bastarmi.

(**)

il tapis roulant mi restituisce alla luce con lentezza, dopo il buio dei sotterranei deserti, mi diverto col giochetto dei moti relativi ad accelerare di qualche passo nella direzione del movimento, così mi sembro più rapido, appena più dei miei pensieri. c’è da sorridere, credo. giro a sinistra a cercare l’ingresso, scanso di un pelo un ometto coi baffi che procede alla cieca sepolto stracarico di uova pasquali che scricchiolano di carta rosa blu e argento.

e allora succede.

la deviazione dalla retta via non è mai cosa buona.

mi passa davanti sfiorandomi, conosco quel movimento a incrociare traiettorie e vite, sono un ragazzino attento, mi piace farci caso. lei, comunque, non mi nota, così posso guardarla con comodo e sopprimere il brivido che mi ha dato. mi fermo, per darle il tempo di fare qualche passo, e poi seguirla. non me la perderei per nulla al mondo, ormai.

è una minuscola regina zingara, avrà sei anni, sola, sporca aldilà di qualsiasi decenza, vestita di conseguenza, i capelli di un colore difficile da narrare, crespi, dritti. e scalza.
scalza.

(***)

forse ce la faccio a dirteli tutti i pensieri, non è facile, credimi.

per prima cosa, ma –contemporaneamente-, le guardo i piedi mentre cammina, guardo proprio sotto la pianta dei piedi, che sono sporchi, accuratamente sporchi, e già, è scalza, mi pare ovvio, poi penso che il marmo del pavimento è pulitissimo, lo so è un pensiero sciocco, ma è marginale, penso anche che deve essere freddo quel marmo lucido, ho la sensazione di essere scalzo anch’io, per un attimo, e rabbrividisco ancora, poi penso che la folla dentro, come dire, lo dico? –inorridirà- vedendola, così fottutamente sporca e scalza, su quel pavimento freddo maledettamente tirato a lucido.

(****)

ma non è tutto. la pupa cammina con una sicurezza prodigiosa, sguardo dritto e passo affrettato, devo adeguare in fretta il mio per starle dietro, sa cosa fare, sa dove andare. e io la seguo. la seguo? la seguo, certo. e la guardo, minuscola, sicura a zigzagare la folla, guardo lei e le guardo il mondo attorno. guardo la signora in similpelliccia seduta, stanca di aver comprato i suoi bendidio, guardo gli occhi della signora, per vedere, -sperando che-, se si accorge. la pupa le passa davanti alle pupille, a mezzo metro. la signora e la sua pelliccia non vedono nulla, sarà la stanchezza. guardo il giovane che indossa uno speranzoso cappellino celeste del tipo –volaquilaorgogliosavola- e un paio di occhiali al plasma da ottanta pollici, scuri, e no, il ragazzo non la vede, pure la pupa gli passa quasi sui piedi, lui guarda, ma non vede, saranno i fottuti occhiali spaziali, troppo scuri per stare al chiuso. e così via, io guardo la pupa, il suo passo sicuro, il suo sguardo che punta dritto, e penso –scalza-, e penso –nessuno la vede-.

e capisco la sua sicurezza. la pupa è completamente invisibile.

fino al limite osceno dell’inesistenza.

non ho altri pensieri, ora che ho capito.

ma voglio la prova, ancora, magari mi sbaglio. la seguo fino al poliziotto che sta accanto alle sbarre scintillanti, quello che controlla e impacchetta nella plastica le borsette per evitare la tentazione di un taccheggio compulsivo, lui gentilmente impacchetta tutto, guarda, scruta, controlla, è addestrato a guardare, cazzo, almeno lui.

ma l’incantesimo deve aver colpito tutti. la pupa gli passa praticamente sui piedi, lo so perché vedo le sue scarpe e i piccoli piedi nudi, sfiorarsi, ancora. il poliziotto non vede nulla.

la pupa attraversa la barriera della sbarre luccicanti dritta sparata, e allora la perdo nella folla del sabato di pasqua.

-l’hai persa-, dici.

-non è esatto, l’ho lasciata andare, è diverso.-

(*****)

vedi, mi piacerebbe che ci fosse una morale, mi piacerebbe dirti di pensieri indignati, borghesi, mi piacerebbe darti conto della strategia di quei piedi scalzi, della astuzia di un genitore degenerato che aspetta all’uscita il frutto di un qualche piccolo furto impossibile da punire, mi piacerebbe dirti di quanto mi sento migliore ad aver visto, ad aver saputo guardare, io sì e tutto il mondo no, mi piacerebbe dirti che scrivere mi lascerà un po’ di pace, e invece no, mi spiace, non c’era alcuno di questi pensieri, non sono affatto meglio, no, neanche ad aver fatto, infine, un unico pensiero che brucia ancora:
che davvero mi sarebbe piaciuto prenderla e portarla via.

avrei voluto che questo atto non avesse alcuna conseguenza sul mondo, avrei voluto che la legge di inesistenza valesse per sempre, in modo da lasciare impunito il peccato di orgoglio di volerla –sollevare- da quel fottuto pavimento freddo. e portarla via.

(******)

la poesia, dici? dov’era?

bene, se proprio vuoi saperlo, un istante prima di abbandonarla con gli occhi, prima di quell’addio per sempre, ho fatto un sogno.

tra un battito di ciglia e il successivo ho sognato la pupa, seduta a un pianoforte, vista da dietro, vestita come un fottuto marinaretto dei film di Bergman, composta, pettinata, a strimpellare una sonatina allegra, vestita perfetta, di tutto punto, con l’unico particolare stonato di quei piedi scalzi, sporchi, nascosti al mondo.

un sogno in cambio dell’addio.

no, non lo so davvero chi possa aver vinto cosa, in questa storia.

(*******)

all’uscita, mentre percorro la strada all’indietro l’autoradio del cazzo si inventa di sputare qualcosa tipo yourowndisaster dei TakingBackSunday, una cosa da ballare abbracciati stretti.

penso che oggi forse avrai trentanni, che un giorno mi hai chiesto un regalo da non comprare, qualcosa che non esistesse, penso che non ti ho mai fatto un regalo, penso alle strade che si attraversano, per poi perdersi, penso che è sempre un peccato andare via, inventarsi che è stato necessario, inventarsi che era meglio così, inventarsi che nessuno si perde mai davvero, penso che no, non ce l’ho una risposta, e neanche un regalo.

una cosa posso fare, stringere questa storia con un fiocco rosso, un nodo stretto.

e che sia stretto forte è l’unica cosa che abbia un significato.

e ciò che significa è ciò che ti lascio, ragazza.

.

ai passeggeri del vento

ai reverse sides della memoria

a chi conserva

a chi ha avuto cura

a chi esiste nonostante

a me

e a te.