Chiba, la città-alveare, è un uovo di metallo inerte covato dal sottosuolo che si va lentamente spegnendo, lungo la verticale ideale dove un tempo erano grattacieli azzurri a contrastare silenziosi templi e fiori di ciliegio.

Hikiko sente in anticipo la transizione d’energia della città alla fase di sonno indotto, come un lungo sommesso ronzìo dei suoi nervi adolescenti, e prima di cedere al nero elettrico del sonno senza sogni compie il suo ultimo gesto di ogni giorno. Le dita aperte a stella si posano sul deck che sfrigola di luce blu e, in un sussulto di transizione isotropa, il suo spirito aidoru viene assorbito dalla Rete.

La bambina di un altro tempo lo attende in ogni sogno, dondolandosi sulle gambe alla fine di un corridoio luminoso, lo guarda per un istante con i suoi occhi da cane fiducioso, si lascia prendere per mano e lo conduce verso una nuova porta. Si ferma, esita. Hikiko la rassicura con la sua stretta ossuta e adolescente, la bambina socchiude la porta e muove le labbra come a dire: guarda.

In ogni stanza vive e sanguina un sogno vivo della bimba, un sogno che nessuno ha mai visto.

Hikiko guarda.

Il mondo della stanza stavolta è un piano ideale di legno chiaro e profumato, poi solo luce morbida, la bambina si aggrappa forte alla mano di Hikiko quando sul pavimento di legno iniziano con lentezza a disegnarsi un milione di intricate linee sottili, colorate, vertiginose. Un milione di traiettorie incomprensibili.

La bambina spalanca gli occhi, abbandona la mano e fa un passo. Scivola a piedi nudi lungo una linea rossa che sembra più morbida, meno paurosa delle altre, si solleva sulle punte, e Hikiko sussulta, gira su se stessa, disegna di grazia l’aria con le mani. Poi si ferma, esita, cerca con la punta del piede, senza guardare, una seconda linea più maligna, avvitata e tortuosa, e ancora si solleva sulle punte, e ancora porta con sé in alto la coscienza dell’equilibrio del giovane aidoru, lo porta su in una vertigine consapevole, assoluta. La bimba gira e gira e salta un salto difficile, cercando la soluzione del volo con un gesto delicato delle dita. Ma qualcosa non ubbidisce alla sua grazia.

Cade, di un tonfo sgraziato, disperato. Muto.

Hikiko vorrebbe chinarsi, per disposizione naturale, aiutarla, muove le labbra, tende la mano.

La bambina gli addossa uno sguardo colpevole, desolato.

Hikiko, che dorme, che vive sepolto vivo nella sua impossibile solitudine, sa.

Di quella caduta eterna, senza rimedio, congelata nel tempo e nel ricordo, dell’impossibilità di sopraffare l’enormità spietata, semplice di una legge che mormora: cadrai, sempre.

Con un gesto timido di coscienza immagina di fare un passo indietro, socchiude con delicatezza la porta, poi inverte in un impeto di rabbia d’oro il flusso di quell’allucinazione bruciante e richiama a sé il suo spirito aidoru, verso la quiete del sonno senza sogni.