Ho deciso.
Che al mio funerale vorrei suonassero “Pissing in a river” di Patty Smith.
Vorrei che il volume fosse alto così da stupire gli uccelli in volo, e vorrei che qualcuno sorridesse ricordando che sono stato una persona spiritosa.
Vorrei ricordare per l’eternità quell’istante che luce ed ambra furono una sola cosa, negli occhi. E che mai ho voluto decifrare, se fosse merito della luce o degli occhi. Perché non si vive solo di cose spiegate, ci siamo capiti. Vorrei ricordare per sempre ciò che vidi, quel giorno.
Vorrei una cassa di legno verde, se vi piacciono i dettagli, di quell’albero che vidi un pomeriggio d’estate: le radici avevano spaccato con ferocia una roccia grigia e inattaccabile affondandovi di un destino inevitabile. Era cresciuto di acqua, vento e impossibilità. Bellissimo, credete. Una quercia. Un giorno un fulmine l’avrebbe spaccata in due fino all’anima nuda. Per la gioia di chi crede che tutto ha una fine. Ecco, vorrei un po’ di quel legno, una cassa tagliata grezza. Niente fronzoli gotici, per carità.
Perché poi vorrei una terra grassa di collina a consumarla entro il breve volgere di qualche stagione. Una terra che d’inverno si prenda il suo manto di neve e in primavera vi stupisca di fiori. E alla fine, questo mi piace, un qualche ciclo segreto di stelle e tempo avrà livellato di pari passo quel mucchio di terra e il ricordo lieve di un me stesso ormai inappartenente, finalmente andato.
Di mia madre e mio padre: vorrei vederli piangere, cioè li vorrei ancora vivi.
Mia madre ha gli occhi azzurri e mio padre parla poco, vorrei che smettessero il pensiero inespresso di avermi insegnato poco o non abbastanza, mi hanno regalato anzitutto il loro stesso preciso senso di inappagamento, l’inquietudine di cercare la felicità. Mia madre mi ha insegnato a leggere quando avevo quattro anni, era il suo mestiere, d’accordo, ma dedico a lei ogni libro, ogni singola parola che ho incontrato, letto, scritto. I suoi occhi mi hanno insegnato a guardare le cose che vanno via, esattamente come le rondini nere che lei mi indicava col dito, al principio dell’inverno. Da allora, chissà perché, so per certo che ogni cosa che va via è per fuggire da un freddo troppo grande, e quindi il Sud è l’unico posto dove potrei ritrovarle.
Mio padre invece mi ha regalato la sua antica pazienza, che relegava l’ira a brevi e divertenti scoppi passeggeri, subito seguita da una dolcezza colpevole che mi ha fatto sorridere sempre, dentro. Come potrei ripagarlo. Mi mancherà il suo vino, di un rosso indescrivibile.
Il resto lo vorrei come nei film americani, tipo “Il grande freddo”. Le mie amiche, bellissime e spezzate dal dolore, occhiali e abiti neri, con una luce a cascata che le farebbe tutte uguali e curiosamente bionde, per sempre inconsolabili. Vorrei ricordarle tutte, quelle che sono state per un po’ nella mia vita, con timore eccessivo, senza capire tutte le sfumature, ma tutte con un cuore grande che non ho mai meritato appieno. Vorrei dei primi piani sulle loro mani, e poi gli occhi a distinguerle una dall’altra. Chissà se avranno capito quanto mi piacevano i loro occhi.
I miei amici invece, e mio fratello sarebbe fra di loro, lo so, li guarderei tutti con tenerezza, un po’ goffi negli abiti scuri, cravatte sbagliate a spiccare di tutte le sfumature del dolore. Ognuno mi ha portato in dono la sua sensibilità. Sappiano che almeno una volta li avrò guardati nell’anima, tutti così deliziosamente diversi, mentre ridevamo insieme di qualche sciocchezza. Scommetto che qualcuno sta pensando alle scommesse per la domenica. Qualcuno pensa a quel viaggio che non faremo mai più, qualcuno sta sognando un qualche tipo di sogno. Vorrei ricordarli per sempre.
Poi.
Vorrei che ci fosse un posto vuoto. Solo uno. Per te che non sei potuta venire. Per te che non sei potuto venire.
Non dire nulla, lo so che il tempo è un gran bastardo.
Peggio per te, perché nei film americani dopo il funerale c’è un magnifico rinfresco.