(…)

Un lungo istante era trascorso quando Ismael parlò, la furia si era stemperata in una dolcezza ancora una volta sorprendente :- C’era una volta, in un luogo ormai lontano nel tempo e nella memoria, un paese di poche anime, fatto di case bianche e vicoli di pietra, quei posti li ha visti anche lei, amico mio, forse il suo cuore ne abita ancora qualcuno, sono quel ramo dove la nostra infanzia resta appollaiata con ostinazione, nodi serrati d’appartenza, lontani dal mare, aspri d’inverno quando la tramontana spacca le fontane di ferro grigio, odorosi di fumo, punteggiati di vecchie dai vestiti neri e dai volti scavati di rughe serene e profonde.

-Quei vicoli abitava una masnada di briganti da strada, di un’età che spaziava dai cinque agli undici anni, divisi secondo una gerarchia accurata che obbediva a delle leggi-scimmia del mondo inarrivabile e adulto. Io ero uno dei più piccoli, un pallore aristocratico me ne distingueva, che neanche la polvere in faccia, a ditate, o lo sporco sotto le unghie di cui andavo fiero, o le croste sulle ginocchia martirizzate avrebbero potuto cancellare.

-Ma i bambini non sanno di caste, in fondo, amico mio, non creda alla boria di chi straparla della crudeltà dei bambini, del loro egoismo, ho visto bontà e dolcezza inenarrabili in quegli anni, e mi si legge ancora in faccia, crescendo si perde la memoria, e questo forse è sempre un crimine personale, una sconfitta.

-Quel bambino che ero, sempre di corsa in quelle rughe di pietra…-,

e fu come sprofondare in una di quelle favole sciocche che una nonna raccontafiabe mi aveva regalato nei lunghi mattini d’inverno della mia infanzia. Il mio amico sfoggiava una voce quieta ed evocativa, omerica, pescando direttamente dai miei ricordi, usando le fotografie, in bianco e nero mi si perdoni, che la persistenza ingenua della memoria aveva sempre rifiutato di chiudere in un cassetto, usandole, dicevo, come il fondale di legno dei vecchi western, si vede il trucco d’accordo, è tutto finto certo, ma chi rinuncerebbe a una favola ben raccontata?

E siccome ogni favola ci pretende bambini, è la regola, sapete, niente sciocche complicità o ammiccamenti da letteratura adulta, narratore e lettore ipocriti, simili, fratelli, (-Dio, quella Madame Bovary, quanto mi somiglia!-), siccome, dicevo, la favola è universo, è teatro per anime che filano ancora bozzoli iridescenti, è il regno del terrore perché approfitta dell’inconsapevolezza virginale dell’infanzia, del non sapere nulla del mondo, del sangue, siccome, dicevo, la favola ci insegna di assassini, monete d’oro e burattini impiccati e scalcianti, ci insegna la paura con la paura, con buona pace della pedagogia da salotto buono, oddio devo dirlo: borghese, per questo e altro, in un istante, divenni io il moccioso eroe protagonista di quel film ricordo, divenni l’alter ego di quel frammento incandescente dell’infanzia del mio amico Ismael, che:

– … sgambettava veloce di ritorno da qualche gioco appena smesso. Era indiscutibilmente l’ora di una merenda fugace, pane nero e miele, o castagne calde di cui riempirsi le tasche per poi tornare di corsa per strada a vantarsi, comunque qualcosa di trafugato, un fast-food etico insomma, che non sottraesse troppo tempo al tempo del gioco che sarebbe ricominciato di lì a poco, quello si irrinunciabile.-

-E – Presto! Presto!- era il pensiero che deviò il corso di quel pomeriggio d’autunno, deviò quei piccoli passi, quelle gambe gracili e martoriate di graffi e croste, deviò il corso dei fiumi, degli astri, delle vite, delle coscienze. Quel solo unico pensiero di fretta, di far presto o ricominceranno senza di me, spostò l’asse del percorso usuale verso casa lungo una scorciatoia, del tutto immaginaria se paragonata ad una topologia ragionevole ed adulta, ma eccitante perché misteriosa e segreta, un gioco nel gioco, un esercizio d’astuzia e labirinti, una scorciatoia da monelli, come altro potrei dirla. –

-Una piccola cosa in fondo, si trattava di attraversare un orto, cinto e proibito come un eden, anziché aggirarlo, intrufolarsi con astuzia e mimetismo rettile in un pertugio irto di ferro arruginito, acuminato e ghignante, costeggiare l’ombra che un vecchio albero asmatico proiettava lungo un muro calcinato, trattenere il fiato per un lungo istante, guardarsi intorno con sguardo da cheyenne, accertarsi di non essere stati scoperti dal fottuto contadino di turno, uno dei tanti cacciatori di taglie armati di sassi e cani lupo irsuti e ringhianti, sempre trattenuti a stento, percorrere di corsa e a balzi un breve tratto allo scoperto, raggiungere l’angolo opposto, così da compiere quel movimento diagonale che avrebbe giustificato la deviazione dalla Via Maestra, afferrare il chiavistello della porta, di fattura certo medievale, che chiudeva da secoli quel luogo di delizie proibite, agire sul meccanismo rugginoso con tutta la forza del mondo, spalancare la porta e fuggire via in un lampo ridendo fra sè e sè, con moderazione, dell’impresa compiuta. –

-Guadagno totale dell’operazione, valutato in spazio e tempo: nullo. –

-Ma non fu così quel giorno. –

-Perché quel giorno era scritto. In qualche libro di profezie minori, forse, ma tutto scritto: di come una vita possa cambiare di un nulla e per un nulla, una ragione insignificante di cui nessuno ricorderà mai, se non percorrendo a ritroso il filo teso sottile di una vita intera, alla ricerca della causa, dell’istante che ci ha fatto uomini, sbrogliando la matassa delle troppe aggrovigliate possibilità del divenire, a trovare il capo intatto dell’Essere, e annodarlo finalmente al polso con qualche nodo segreto, risolvendo in qualche modo, in anticipo o in ritardo, mai in tempo, la parte sinistra dell’Equazione della Vita, la domanda di localizzazione: dove e quando diventammo uomini?-” –

Quella domanda saliva lenta a perdersi nell’aria tiepida di quella sera di maggio, Ismael fissava le stelle, a tenere in sospeso una pausa da narratore sapiente, una pausa necessaria, egli mi aveva sgomitolato la sua storia, svolgendo il filo sdrucito, fragile della memoria, e la memoria è pudica a volte, gelosa di segreti pur sciocchi, inerme di un sorriso dolce di fronte alle offese del tempo che mugghiando le ha sottratto particolari importanti, a volte fondamentali, deformando le ragioni alla fucina del quieto sopravvivere, fino a temprare gli alibi inattaccabili, inossidabili che ci rendono uomini ordinari, di sonni tranquilli, sconfitti senza mai aver trovato l’istante della resa.

Ora quel filo Ismael mi aveva svolto davanti agli occhi, girando all’indietro, a mano, il film della sua personale inquieta memoria, e, idealmente con un gesto della mano sospesa in aria attendeva il momento di riavvolgerlo, raccontando, recitandosi, per la prima volta magari, o magari ancora una volta, e per sempre, il ciack finale, l’ultima scena di quel gioco di conoscenza che avevamo iniziato qualche ora prima e che sarebbe durato, inevitabilmente, finché il mondo intero non avesse perduto la memoria del suo stesso esistere.

Il cielo sembrava aver ripreso fiato, lo si capiva dalla sfumatura rosa e celeste che persisteva contro il blu incipiente della notte, quando Ismael, con infinita cautela, riprese a parlare:

– Quel giorno il bambino che ero, i sensi all’erta, teso e pronto allo scarto diagonale verso la porta e la libertà, nell’istante sospeso del respiro profondo che precede l’azione, fu bloccato, inchiodato al suo posto, con orrore e meraviglia, dal rumore della porta che si apriva. La chiave, che si immaginava enorme e rugginosa fece scattare il chiavistello, la porta gemendo sui cardini si aprì, e, nell’ordine entrarono nell’arena: il vecchio orco proprietario del luogo, che rinculando trascinava un sacco di iuta grezza contenente, a giudicare da una prima astuta occhiata fanciullesca, tutti i diavoli dell’inferno urlanti, il cane dell’orco, scodinzolante e leccaculo come da attitudine millenaria, e, infine, e qui l’orrore diventa solenne, la nonna raccontafiabe del nostro a chiudere il bizzarro corteo. –

-Ora è strano, amico mio, quanti pensieri e con che velocità astrale riesca a fare un monello da strada che immaginiamo sì rotto a tutte le esperienze, ma che il pensiero adulto, con indulgenza, si ostina a voler relegare nell’ovatta inconsapevole dell’innocenza, per cui le dirò del primo lampo di soddisfazione che ogni bravo generale gode nel vedere il nemico che prende posizione sul campo di battaglia: la coscienza di essere perfettamente mimetizzato nelle ombre e di avere le spalle coperte dalla possibile ritirata attraverso il foro d’ingresso inorgoglirono il nostro piccolo eroe. –

-Un istante appena per ringraziare gli dèi cheyenne che avevano ritardato l’istante dello scatto verso la porta, in un altro momento, quella notte si sarebbe potuto immaginare un altro tempo, un’altra avventura, in cui il cane feroce sorprendeva il bambino in piena fuga, per cui frenata, dietrofront e corsa per la vita con il molosso urlante alle calcagna, ma no, quello non era tempo, perché adesso era giunto inevitabilmente l’istante della consapevolezza.

-Il bambino che ero, in un reale brivido d’orrore che gli squarciò il petto come un tuono, si ricordò della condanna a morte che il vicinato a congresso, con l’avallo della nonna raccontafiabe, aveva decretato nei confronti di una gatta grigia e diseredata, un tempo proprietà della nonna stessa, e che era ormai diventata, per l’età o per altro, oggi diremmo, inutilizzabile, lagnosa, incapace anche di cacciare i topi. –

-Negli occhi e nel cuore del piccolo non ci fu mai l’istante del dubbio, scappare o restare a guardare, né su quello che sarebbe successo, quello era il luogo dell’esecuzione, perfetto da secoli, il giardino dell’orco, capisce amico mio, e forse solo per un istante infinito il bambino che ero valutò la possibilità di uscire allo scoperto, urlando, simulando un attacco frontale, feroce, come nei libri di Salgari, uno contro cento miei prodi. –

-Ma questo non avvenne. –

-Perché la Vita si stava compiendo in quel momento, e mi richiedeva spettatore. –

-Quel che avvenne lo lascio alla sua fantasia, amico mio, se fossimo personaggi di un libro acchiappapopolo le confesserei, con letteraria ferocia, che, quando la seppellirono lì, in quell’orto ormai scomparso nella memoria, la gatta respirava ancora.-

(…)

 

untitled4