Il luogo: la Facoltà di Matematica della dotta città di Salamanca

Il tempo: che sia un quattordicimaggio

Il tempo meteorologico: un pomeriggio caldo. La luce sfumerà, nel corso della Storia, dal giallo accecante, al corallo, al turchese della sera. Falsi colori. Una concessione alle architetture letterarie.

Il tempo nella memoria: trecentosessantacinque giorni standard.

Io esisto per raccontare questa Storia.

Con occhi quasi di donna.

La Facoltà di Matematica è un edificio di marmo bianco intagliato nello spazio con un rigore geometrico così didascalico da far sorridere un po’, ma a dispetto di tutto, i gabbiani che fanno tappa verso il fiume sembrano averne preso confidenza da sempre, e amano sostarvi immobili sull’orlo del tetto.

È un buon inizio per la Storia che racconterò, gli uccelli, che non siano neri, sono sempre di buon auspicio.

L’atrio della Facoltà brulica di gente estranea oggi, le donne hanno vestiti eleganti e profumano di fiori e gioielli, gli uomini in grigio e nero e orologi costosi e cravatte sbagliate, e poi fiori, rossi, a mazzi, e la paura sui volti dei futuri Dottori, le rughe delle madri, l’orgoglio del tempo che sta per compiersi, il rigore della Corte che giudicherà quelle parole di Scienza, tutto sarà bello oggi, comunque.

Il mio amico si muove tra la folla senza guardare nessuno. Finge di non sentire gli sguardi curiosi che dal vestito grigio scuro camicia bianca e cravatta graziosamente celeste si spostano alla borsa che custodisce il computer portatile e infine alla Tesi che porta sotto il braccio, rosso scuro e caratteri fintamente d’oro. Non c’è dubbio che non sia uno dei candidati, e quindi gli sguardi curiosi che corrono al volto a cercarla, la Paura.

Bene.

Io esisto per raccontare la Storia ma non esisto nella Storia, per cui posso svelarvi che già due o tre volte gli ho girellato intorno, e con un sorriso ne ho cercato gli occhi, con questi occhi di donna, e nel fondo di quelle iris verdi e nocciola ci ho trovato una tranquillità curiosa e divertita, sta fingendo indifferenza mentre si fa largo tra la folla e i profumi pungenti, ma guarda tutto, come gli conosco fare, è poco quello che gli sfugge, se non quando distoglie lo sguardo, per dei motivi che i più non sanno.

Io non esisto. E se esistessi sarebbe per lui il mio amore. Se esistessi avrei un vestito lungo da indossare per lui, oggi, e una goccia segreta di spezie tra i seni se volesse baciarmi, come spesso ama fare, a rassicurarmi.

E se esistessi vi direi di come si muove da lupo, solitario e struggente, sempre, di quei lupi che vivono e amano una sola compagna, per sempre. Perché se esistessi sarei la sua compagna oggi.

Ha raggiunto i suoi amici in un angolo tranquillo ora, Alessandro che, incredibilmente è in piedi a quest’ora, le tre del pomeriggio, questo è il segno di un’amicizia grande, e poi Pier Paolo, elegantissimo per l’occasione, un po’ più che un fratello, Cristiana e i suoi occhi verdi, e i salti mortali che ha fatto per esserci, ma non lo dirà. Gli ha portato quegli occhi, il silenzio discreto di cui vive da sempre, e un vestito che sfumerà nella memoria, dopo un tempo necessario. Ne manca qualcuno, io lo so.

Si stringono a cerchio.

E questo è buono. Si parlano e sorridono. Stanno vivendo un tempo sospeso, fra un istante nulla sarà più lo stesso,

eravamo nell’età illusa

posso sentire il suo pensiero, e come glielo dice con gli occhi.

Se esistessi in questa Storia me ne starei in disparte a guardarlo, e mi sorprenderei come sempre alla grazia con cui il mio amico si inventa il modo di vivere ogni momento.

Dove ha messo la Paura oggi?

E pure lo sentiamo, lontano, quel brontolare di tuono.

Oggi ha inventato una maschera nuova per la sua Paura, e questo ci sta regalando.

Dopo il cerimoniale di fratellanza, inevitabile, il momento più delicato, gli occhi azzurri della madre spaventata e il sorriso, teso, d’occasione, del padre e dei due zii più cari.

La zia Nella gli ha insegnato a cantare – La guerra di Piero – quando aveva tre anni, la madre a leggere e scrivere a cinque, il padre lo ha cresciuto a mitezza, senz’ira, lo zio Palmiro lo ha fatto comunista e curioso di Scienza. Lo hanno tirato su bene, con amore.

È un incontro breve, una stretta di mano fugace, rassicurante, poi i quattro si dileguano con l’idea di lasciargli una certa tranquillità, doverosa in certi momenti.

Poi alcuni personaggi, che passano veloci, la Prof.ssa Giovanna, relatrice della Tesi, occhiali d’oro, occhi verdi chiarissimi, elegantissima, gli sorride e gli fa un complimento per la bella cravatta, la Dottoressa Patrizia, relatrice esterna, fa parte delle forze alleate in appoggio, casomai ci fosse una guerra di voti, alla fine. Patrizia si fida di lui, non ha nessun dubbio, solo un cenno veloce d’intesa, un affettuoso – se sgarri sei morto -, e il mio amico sorride.

E quando tutto è pronto, nella penombra soffusa dell’aula, quando il silenzio scende, e il teatro è disposto, quando le teste grigie si fanno attente e il pubblico trattiene il fiato, il mio amico inizia a parlare.

E siccome io non esisto in questa Storia mi scelgo un bel posto per godermi lo spettacolo,

e mi metto al suo fianco a guardare,

curiosa,

con occhi di donna.

Il proiettore disegna sullo schermo un Cavaliere antico, il fotogramma di un vecchio film malridotto, sfregiato, offeso dal tempo, una Tesi sul restauro dei vecchi film e un Cavaliere dal volto fiero che ci guarda, stupito potrei dire.

La Matematica come scienza indovina per riempire i vuoti che il tempo, e i proiettori anteguerra, e i proiezionisti annoiati hanno lasciato sul Cavaliere e la sua battaglia, così il mio amico vorrebbe parlarne, e dell’amore che lo ha guidato nella ricerca del tempo perduto, questo si porta dentro mentre illustra i dettagli di quel lavoro lungo ma bello alla platea ammutolita.

E poi mi piace quando, semplicemente, le sue mani lasciano il computer e iniziano a riempire le lavagne di formule arcane, per spiegare che non c’è trucco ma Scienza nella cura di quelle ferite di celluloide, e allora le teste grigie si fanno piu attente, lui lo sa, qualcuno chiederà, lo metterà alla prova, ma è da un po’ che ho capito che non c’è Paura oggi, il mio amico non ha fretta, si beve le domande attento e curioso, risponde senza lampi di sfida né trionfi, e la testa più grigia di tutte annuisce, ha compreso che il mio amico si sta divertendo, e lo guarda ammirato.

Questo posso vedere, io che non esisto, questo è ciò che gli altri non vedono, troppo lontani relegati nel fondo buio dell’aula, questo vedo con i miei occhi di donna che ama, questo racconterò del mio amico.

Dal proiettore alla lavagna, due volte e ritorno, fino alla conclusione, niente altro che la proiezione di un frammento di quella battaglia che stava immobile in attesa sullo schermo, il cavaliere che ora scintilla di nuovo e solleva lo scudo ornato di un drago prezioso, sessantaquattro fotogrammi, una scheggia, un niente nella storia del mondo, forse. E il pubblico resta muto quando il mio amico smette di parlare. Nessuna domanda.

Il mio amico sente il silenzio, ma sa che non è finita.

Nella dotta Salamanca la prova finale prevede una dimostrazione ulteriore di Sapienza, così, a sciogliere il dubbio che si sia trattato di un bluff, neanche si fosse proiettato un vecchio western.

E quindi, per ultimo, la dimostrazione di un Teorema, a scelta, di grazia, una prova di Logica, e che sia rigorosa, ben fatta, inattaccabile, la Logica è sempre assassina si sa.

E io che non esisto ancora nel tempo del mio amico, nei suoi occhi, né dentro questa Storia, conosco. Quanto egli detesti la Logica, e quel suo procedere da nulla a nulla, da un’idea assunta vera per fede, a piccoli passi, oh, sorprendenti è vero, l’ingegno, il genio e millenni di sforzi e dispute, a piccoli passi verso una Verità che è già vera semplicemente per ipotesi. So che, più di tutto vorrebbe parlare di questo alle teste grigie, ora, un taglio di spada dritto al cuore, così vorrebbe, – Signori, da nulla a nulla, ricordiamocelo sempre, questa è Logica – , così vorrebbe, ma la sua spada dorme oggi.

Il mio amico ha scelto un altro modo per parlare, solleverà quel velo polveroso a modo suo, tutti ascoltano, e io che non esisto, quasi sussulto a sentirlo parlare:

– La formulazione ingenua del Paradosso di Banach-Tarski, Signori, è la seguente, immaginate che io abbia un’arancia qui nella mia mano destra, e una lama affilata nell’altra, ebbene io affermo, e questo è paradossale, chiunque può vederlo, che è possibile, in un modo segreto che vi svelerò, tagliare l’arancia in un certo numero di pezzi, non molti in verità, e, badate, senza trucchi, riattaccarli, combinati fra loro, senza trascurarne nessuno, fino a formare due arance identiche a quella originale, che potrei, se volessi – e qui sorride segretamente mentre, per la prima volta affonda i suoi occhi in questi occhi di donna, – potrei, se volessi, mangiare o far volteggiare nell’aria, a seconda del mio umore del momento. –

Ecco, è così che parla il mio amico.

E il silenzio è ancora più denso, se possibile, ora.

Quella che segue è una spiegazione complessa, che affonda le mani in una conoscenza da adepti, le teste grigie sussurrano, concordano, si consultano, mentre, e questo è bello, la testa più grigia di tutte annuisce, ancora, il mio amico parla per lui, lo ha sentito attento, che abbia capito quel suo muoversi sulla lama del paradosso, quella dimostrazione di cuore a sfidare l’impossibilità dell’evidenza, – Non vuoi credere? Te lo proverò, dovessi metterci tutta la vita. Lo farò. Alla faccia della Logica. L’amore può tutto. – Forse è questo che si stanno dicendo con gli occhi, ora, aldilà delle parole di Scienza.

E quando alla fine la Soluzione appare, evidente, inattaccabile, quelle quattro lavagne affiancate ricoperte di segni segreti, e le mani sporche di gesso, e il silenzio,

ecco, ancora, le sue parole,

– Ecco, è evidente che si può, ecco la forma dei tagli. Laddove la Logica dell’Uomo afferma un’impossibilità, esiste sempre, in qualche modo, una forma segreta da dare alle cose, nonostante le cose abbiano già una propria forma evidente. –

– Ecco, se dipendesse da me, Signori, a quel modo di leggere il mondo io darei un nome e lo chiamerei Fantasia –

E poi ancora, dopo un lungo respiro,

– Io avrei finito, e poserò sul tavolo l’arancia e la lama, ho provato che potrei farlo, in qualsiasi momento, ma penso che per stavolta non sia il caso, potrei sporcarmi il vestito. –

Alessandro ride dal fondo dell’aula, e si sente fino a qui, ha cronometrato il tempo della Prova, e ha fermato il tempo su quell’ultima parola, ha deciso che è finita.

La testa più grigia di tutte annuisce e con autorità conclude la Storia.

La quale Storia potrebbe finire qui, se io non esistessi, certo ci saranno abbracci e lacrime e fiori dopo, e anche un voto sorprendente, e una stretta di mano forte fra il mio amico e la testa più grigia di tutte,

poi altre cose, come di un futuro al principio, e questo è sempre un brivido.

Quello che vorrei, se esistessi, è che lui, il mio amico, il mio amore, si fermasse ancora un istante, con me, nell’aula deserta,

e con occhi curiosi in questi occhi di donna accettasse il mio dono per lui,

un fiore rosso, un bacio sulla bocca,

e poi,

poi, con le mani cancellerei un po’ di quei segni segreti sulla lavagna, a ricavare uno spazio minimo di vita per le mie ultime parole di questa Storia,

eravamo nell’età verginale
in cui le nubi non sono cifre o sigle
ma le belle sorelle che si guardano viaggiare
eravamo nell’età illusa
volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme
certo guardammo muti nell’attesa
del minuto violento
poi nella finta calma
sopra l’acque scavate
dové mettersi un vento

– un vent xiuxiuejant –

questo, semplicemente scritto con un gessetto blu scuro, quasi invisibile sul verde cupo d’ardesia della lavagna,

e allora, se io esistessi, ne riceverei ancora un bacio, l’ultimo di questa Storia,

e ancora, per sempre, le sue parole:

per me, scriverai questa Storia?

 
 

el vent te portarà
allà on vulguis
allà on tu decideixes que
vols anar
allà on tu decideixes que
vols amar.

 
 

A chi non c’era.
Senza rimpianto.