cioè, io con Ivano Fossati ci sono cresciuto. è che avevo 12 anni, e mi innamoravo sempre di tutto. e lui era bello come vorresti essere bello tu quando speri di crescere, sì forse per le ragazze, ma forse anche no, forse per avere quella faccia, quei capelli lunghi, quella giovinezza che aspetti perché ancora non ti tocca. e poi perché cantava dell’amore, con una musica fottutamente amichevole, quando la musica ti prende e ti fa girare, e poi a volte si fermava e cantava sì ancora di amore, con coraggio abbandonato, ti anticipava che l’amore non ti dura, neanche se ti sbatti, tu costruisci pensando che siano mattoni e però avevi solo sabbia, però tu hai costruito lo stesso. ci hai provato. e poi scriveva delle canzoni così belle.

e poi è cresciuto, e anche io sono cresciuto, lui sempre un po’ più avanti, imparavo tutti i versi, tutte le parole, a memoria come solo le canzoni possono entrarti a memoria. sempre un po’ sottovalutato, come l’amico che sì si impegna però sai, c’è de andrè, c’è battiato.

e mentre tu lo sottovaluti lui cresce, matura, ti sorprende, ti inchioda coi baci sulla bocca, col tempo, col mare, coi suoi capitani d’altomare, i viaggiatori, ti canta di come attraversi la vita, ti canta di come sei. e poi arriva la sera che ti dicono che lui ha deciso.

ha deciso che smette. non ti dice perché. non è stanco, non è malato, non ha perso il senso nè il coraggio, la musica ancora se la gira intorno, non ha smesso di voler regalare. solo che smette. un po’ gli brucia, lo vedi negli occhi, perché lo hai sempre guardato negli occhi, e non ti fa male per lui, ti fa male per te.

perché è un addio. senza rimedio.

l’addio ti porta via tante cose, a volte, e una sempre. ti porta via la prossima volta, e per lui ti porta via la prossima canzone. una cosa non ti porta via, perché su quello non ha potere, mai. ricordare.

e io me lo ricordo quel pomeriggio, che ero bambino, ed era estate, l’estate che si passa nei bar di paese, coi sandali ai piedi e l’odore del limone e del caffè e del fumo e del biliardo.

ero bambino senza nessuna memoria del futuro, senza paure, senza aspettative, ero un cristallo sognante alla luce dell’estate.

e in quel bar quel pomeriggio successe una cosa. che entrarono un gruppo di ragazzi, un po’ più grandi di me, tutti i ragazzi che ammiravo, uniti amichetti divertiti.

e fecero una cosa mentre guardavo in disparte. con disciplina accurata si sedettero in cerchio su quelle sedie da bar intrecciate a fili di plastica, in cerchio attorno al juke box, una carretta enorme e luminosa, e il capo di loro infilò una moneta e si sedette con gli altri. e allora venne fuori a un volume spropositato, e sporco e impuro, venne fuori la mia banda suona il rock.

e mentre fossati cantava i ragazzi facevano il ritmo battendo le mani sulle gambe, con precisione, ognuno aveva un suo andare diverso dagli altri e ognuno era perfettamente a tempo e integrato.

e io non lo so cosa pensai, a parte la meraviglia, pensai forse che era una bella idea, pensata bene, intelligente, che ci stava bene, che era uno spettacolo, unico, che ero presente, che mi sentivo protetto, che un cerchio custodisce, sempre. pensai che non lo avrei mai dimenticato.

e ancora lo ricordo.

e poi, penso che non l’ho mai raccontato a nessuno. che era una cosa fra me e lui. fra me e quella canzone. fra me e il bambino che ero. ecco, vedi. l’addio ha potere quasi su tutto. quasi. la differenza la fa chi rimane, a trattenere quel poco che il vento non è riuscito a portar via.