Giulia, come nessuno.

Preludio.

Giulia è un fumetto. Nel senso che, a vederla, potresti giurare che è saltata fuori con grazia da una tavola di Giardino, una pura ligne-claire, o viceversa dopo averla vista, si potrebbe pensare di disegnarla a memoria con un’unica linea blu, a matita, morbida su un foglio di carta ruvida appena sgrossata dalla pomice nera di un vulcano dimenticato.
Appartenni a Giulia da quando lei, stanca di strapparsi dal cuore le spine di amori adolescenti, frettolosi, equivoci, mai consumati, decise di appartenere.
Era un pomeriggio di pioggia. Lo ricordo.
-E’ bello come ti prendi cura. Mi piaci. Sei uomo. – Queste furono le parole, in una sala da tè silenziosa, deserta, mentre il mio sguardo indeciso si muoveva piano lungo le vene dei suoi polsi sottili, fino alle mani giunte posate su una guancia, a sfiorare le labbra lucide di rosa a perline, e risalire piano fino alle ciglia polverose di blu, e all’ambra degli occhi che bruciava di una luce accorata, decisamente intonata allo scenario.
La amavo silenziosamente già da qualche settimana, sapevo in anticipo di quelle parole, e a sentirle libere nel mondo il cuore aveva dato il suo consenso con gioia, nonostante mi risuonasse dentro un rumore secco, come lo schianto di una porta improvvisamente spalancata dal principio di un uragano. Lo stomaco stretto attendeva con urgenza un seguito a quelle parole, qualsiasi cosa purché arrivasse in fretta, e una fitta sconosciuta al ventre si scioglieva in un calore tenero, un languore ormai privo di responsabilità.
Il seguito fu molto, molto meglio di come me lo aspettassi.
-Sei uomo. Non ho mai posseduto un uomo. Sessualmente, intendo.-
Detto con una tenerezza da fermare il mondo.
Il cameriere ronzava attorno al tavolo, con uno sguardo da Thug. Giulia non passava mai inosservata. Al terzo –Serve ancora qualcosa?- lei lo inchiodò con uno sguardo accigliato. – Sto tentando di spiegare all’uomo che lei vede qui davanti a me, e che nonostante l’aspetto troppo serio ora sta ridendo dentro come un lupo della steppa, che provo un’enorme attrazione, no, attrazione non è la parola giusta, perversione, ecco, provo un’enorme perversione sessuale per la sua persona, intesa nella sua interezza, lei capisce, corpo e anima. Se mi serve qualcosa, dice? Mi serve che lei sparisca e che non torni prima di diciassette secoli. Mi troverà ancora qui ad agitare i suoi sogni futuri, non abbia timore. –
Amavo Giulia. Definitivamente.
Andammo via in bianco e nero sotto la pioggia, senza ombrello, senza altre parole, senza pagare il conto, le mani intrecciate, gli sguardi persi nel cielo grigio e i volti sorridenti senza sorriso, tutto come in un film di Truffaut.
Quella prima notte l’amore fu come di gatti affamati, a morsi, soffi di minaccia e attese astute di posizione a studiare il balzo finale e l’affondo dei denti vittorioso nella carne arresa.
Giulia era donna, in attesa, da tempo. Diede prova di una sapienza senza memoria, primitiva, urgente, intatta. Cercava il possesso, offerto e preteso, i seni sudati a splendere in dono come oro santo. Dentro al buio celeste della stanza cercava l’uomo che per un istante aveva visto da bambina arrivare da dietro l’orizzonte verde del mare, viaggiatore sapiente in cerca di approdo, e un baule di cuoio pieno di giocattoli paurosi, irresistibili.
Non era amore che voleva. Era qualcosa di più.
La guardai diventare donna con un ultimo grido a gola piena, e poi abbandonarsi fra le braccia, per un sonno improvviso, di libertà prepotente, senza inutili baci consolatori ad alleviare il distacco.
La guardai respirare nel sonno, per ore, muoversi a scatti improvvisi, leggeri, scivolarmi via di dosso e cercarsi un rifugio in un angolo del letto, rannicchiata dapprima, e poi libera, distesa, di schiena. La guardai respirare.
E fu allora che me ne accorsi.
Giulia non aveva odore.
L’avevo spogliata, accarezzata lentamente, le avevo levato di dosso con la bocca l’odore della pioggia, della città, del cuoio della cintura, del tempo atteso, con la lingua avevo sciolto i nodi della sua paura nera, avevo leccato via i cristalli aspri del suo mai essersi donata ad alcuno, l’avevo strofinata, morsa, graffiata, poi, alla fine, avevo smarrito il senso stesso della mia identità nel temporale caldo che era starle dentro, sentirla, guardarla.
Così ripensavo mentre mi accorgevo che Giulia non aveva nessun odore. Provai a inspirare forte l’aria della stanza, incredulo dell’assurdità che le leggi esatte della chimica non mi venissero in aiuto. Nulla.
Provai ad avvicinarmi a lei. A quella pelle bianca che dormiva. Annusai i capelli, l’incavo del collo, mi sollevai sulle braccia, piano, per sentire l’odore del solco fra i seni, scendevo lentamente verso la macchia scura del ventre, sicuro che,
sicuro che.
Giulia dormiva a gambe strette, e non avevo idea di volerla svegliare, mi avvicinai quanto più possibile al suo ventre, in bilico sulle braccia tese puntate sul letto, e fu allora che la sentii ridere. Dapprima sommessamente, come se si trattenesse, poi più forte, rideva e i seni sussultavano piano, era un riso leggero, di vita e buongiorno. La guardai con un sorriso di curiosità che chiedeva da quanto tempo fosse lì a godersi lo spettacolo.
-Non puoi sentirmi, non ti ho ancora mostrato tutta la mia anima-.
Il suo sorriso prese il posto della luce finta del mattino. Mi abbracciò, come a volersi rassicurare che esistessimo.
-Adesso puoi dormire. Anche gli angeli devono.-

Il sogno

Avrei imparato che il sonno dopo l’amore con Giulia era agitato da sogni della forma di labirinti incompiuti.
Quella prima notte sognai di una casa enorme, altissima, mai incontrata nel mondo reale eppure affatto sconosciuta. La percorrevo a piedi scalzi su di una pietra tiepida, rosata, luminosa, con una sensazione di fretta come di un appuntamento mancato. Cercavo una donna, e vivevo un curioso sdoppiamento. Una parte dell’io dormiente si preoccupava della ricerca, percorrendo corridoi in salita, scale di pietra sospese al nulla, ma con la sicurezza di chi abitasse quel luogo da sempre, mentre una parte più sveglia e consapevole nutriva l’enorme meraviglia della assoluta alienità del luogo, ingorda della accuratezza quasi miracolosa dei dettagli architettonici. Era un sogno di pietra e luce, di attesa, di ricerca.
Dopo un po’ si faceva spazio la sensazione di una salita a spirale all’interno dell’edificio, e la sicurezza di stare girando intorno a un nucleo di spazio centrale vuoto, nascosto dalle possenti mura di pietra. La salita terminava improvvisamente in una stanza in penombra, rettangolare, enorme, la suite imperiale dell’inconscio supponendola da sveglio, e solo allora ci si accorgeva della meraviglia. La stanza conteneva al centro una vasca piena d’acqua, di un puro luminosissimo colore verde. Era il mare. Mi affacciai al bordo della vasca. La casa, altissima, affondava le sue mura in un oceano abissale, tranquillo, che era vivo di un solo quieto mormorìo acquoso.
Qualcosa mi ricordò dell’appuntamento mancato, la stanza col mare era scomparsa e mi ritrovai a salire un’ultima rampa di scale dai gradini scheggiati, muschiosi, viscidi, fino ad uno stanzino buio strettissimo, e la sensazione che in quel luogo tutto fosse già avvenuto. Respiravo l’assenza, ormai. Rassegnato e sul punto di andar via mi accorsi che il luogo era ormai privo di porte e che una parete ospitava uno specchio. Il buio era quasi totale, avvicinarsi allo specchio una tentazione irresistibile. Affacciandomi allo specchio mi venne incontro lo spirito di un me stesso giovane, eppure antico, come di una foto ritrovata che si credeva perduta, un essere pallido e doloroso, quasi consunto di un’attesa febbrile e disillusa. Quel mio io sconosciuto aveva gli occhi di Giulia, grandi, gialli, colmi di luce. Gli occhi di una strega nel buio. Nel sogno la paura era assente. Mi svegliai con un sussulto, e la sensazione mai provata di una lunga apnea. Gli occhi di Giulia erano lì a guardarmi, sorridenti. – Mi è piaciuto il tuo sogno – disse, – mi hai trovata, e non era facile. Sei stato bravo. – Poi, dopo che un’ombra veloce fu passata sul suo viso, – mi vuoi per sempre nei tuoi sogni, piccolo uomo?-

Il testamento

Gli occhi di Giulia erano sprofondati d’improvviso in un buio nero di tempo sospeso, avendo smarrito la lucentezza allegra dell’oro e il sorriso delle infinite domande mai fatte che, a margine di un semplice -ciao- mormorato con l’anima il giorno di maggio che l’avevo incontrata nel mondo, avrei potuto tenere in memoria come il seme perfetto dell’amore che saremmo stati per sempre.
La guardai chinare il capo delicatamente, i lunghi capelli neri a comporre un pudore da madonna dolorosa su quei seni piccoli che con un breve sforzo di fantasia avrei potuto immaginare imperlati di paura, in altri tempi, in altri luoghi, in altre vite.
Attesi il tempo necessario a che la tristezza si depositasse, come un velo di polvere blu stanco della luce del mondo, su quel fondo indefinito di silenzio. Sentivo il respiro di Giulia rimmemorarsi addosso un dolore antico, mai risolto, che immaginavo essersi arreso sempre, impotente, un passo appena dietro la linea di sangue di quella domanda che galleggiava ancora nell’aria del mattino, sospesa al filo sottile, perfido della paura e dell’attesa.
Aspettavo che Giulia parlasse come, anni addietro, adolescente, avevo aspettato il primo bacio, con la certezza che ogni respiro da quell’istante in poi, ogni passo, ogni corsa, ogni sapore assaporato a morsi, sarebbe stato come di cosa nuova, vivida della sopresa dei regali appena scartati, quando è dispiacere anche solo abbandonare il fiocco che li teneva avvolti.
Aspettavo la storia di Giulia, ora che il mondo era ormai diverso, straniero e nuovo, aspettavo il silenzio che sarebbe seguito alle parole, e poi le lacrime, l’abbraccio in fine a risolvere quella domanda bruciante, il bacio a lavare l’ingiustizia incolpevole di aver mancato tutto il suo tempo passato, e poi l’amore, a naufragare ancora, l’amore che si racconta muto a fior di pelle, l’amore che Giulia come nessuno.
Aspettavo. Non so quanto tempo passò prima che Giulia parlasse. Non so se sarebbe rimasta per sempre in silenzio.
Le presi le mani fra le mie, le sue piccolissime e inermi come rondini cadute, e la sentii sussultare impercettibilmente.
Sollevò il capo con un gesto brusco, deciso, i capelli fecero un mezzo giro di luna a svelare i seni alla luce di taglio dell’inverno e si disposero delicatamente sulla schiena nuda con un fruscìo che mi fece rabbrividire.
Gli occhi di Giulia adesso erano gli stessi occhi del sogno.
Infine, Giulia parlò.
– Angelo mio, sono nata trecentonovantacinque anni fa, ai piedi di una quercia che ancora vive a custodia di un cimitero dimenticato. Sono nata orfana d’amore al limitare dell’inverno, in una notte che la luna sorrideva di un quarto mancante, e a quella stessa quercia dopo sedici miserabili inverni il corpo intatto della fanciulla che ero, ormai privo d’anima da giorni, fu impiccato come esempio ad ammonire e lasciato seccare alla tramontana e ai corvi. –
Non fu quello che disse, ma il modo.
L’aria della sua voce conteneva il gelo necessario ad ammantare il mondo pur di proteggerlo da quell’orrore, il pudore che lentamente, partendo dal candore delle piume d’angelo, si era tramutato senza discontinuità in una rabbia senza nome della stessa consistenza delle penne di quei corvi irridenti, il fulmine quieto degli occhi, il brivido nero che le aveva indurito i seni durante l’incedere netto, tagliente delle parole, tutto questo mi rendeva Giulia e il suo racconto indubitabili, da quel momento e per tutta la vita a venire.
– Tu sei nato per incontrarmi e per credere, piccolo uomo. E la forza con cui credi viene dal fuoco nero dell’avermi vista. Eri accanto a me, allora, quando ti regalai i miei occhi per l’ultima volta, quando l’uomo che amavo più della vita che mi stava togliendo diede un solo strappo feroce di corda per pagare il prezzo della sua illusa libertà, io che avevo la colpa di averne mendicato semplicemente amore. Mi hai cercata da allora, per tutto questo tempo, senza saperlo mi hai aspettata ogni notte che il vento notturno spazzava negli angoli i peccati del mondo, hai contato il numero impossibile segreto delle maree che ci separavano con la povertà delle sole dieci dita delle tue mani grandi, hai avuto la pazienza e il fervore delle sante puttane dannate al rogo, mi hai sognata così forte da svegliarmi senza fiato, ovunque io fossi, sempre, hai scritto e regalato mille storie, e mille volte fu sempre la mia storia che declinavi diversa a raccontare. Ho avuto molte forme, molte vite. Sono morta mille volte bruciando d’ingiustizia, piangendo di fame, abbandonata d’amore e di cura, sola fino all’ultimo istante di fiato e sempre, sempre sei arrivato in tempo, in ritardo angelo mio, ma in tempo a vedermi morire e cucirti nel cuore il testamento di rabbia dei miei occhi. Ti svelo, ora, un segreto, che sia il nostro d’ora in poi al di sopra di qualsiasi altro: mi eri accanto, ogni volta, e non è stato poi così doloroso morire. –
Che piangere di un dolore comune, condiviso senza vergogna, fosse una faccenda da uomini era una cosa che avevo imparato con naturalezza, quasi un rifugio per riaccostarmi alla radice verde delle vite che mi avevano attraversato.
Giulia parlava senza piangere ma due rivoli di lacrime le scendevano ininterrotti ai lati degli occhi, sul viso, sul collo sui seni, dove sostavano un breve attimo a splendere.
Io, semplicemente, piangevo.

Il Tempio

Giulia aveva ritirato le sue mani dalla mie, incrociando le braccia sui seni.
Mi guardò piangere a lungo, senza parlare. Di tanto in tanto si illuminava di un sorriso di tenerezza, e sempre negli occhi vivi quella stanchezza di secoli che le avevo sentito nella voce.
– Stai piangendo la mia storia, come da sempre fanno gli angeli quando giungono a metà del loro cammino- mi disse, -adesso la tua anima odora di paura giovane, ha la purezza offesa dell’acqua dolce l’istante in cui si perderà nel mare, e dell’erba appena calpestata. Ti senti piccolo, hai braccia piccole inadatte a contenermi, hai perso le parole e la tua lingua nuova non ha più radici, non hai più storia, missione, fede. E questo è il bene supremo, ora, angelo mio. Perché è così che tutto ha inizio. Sono morta mille volte per arrivare fin qui, a guardare lo splendore del tuo smarrimento, voglio questa bellezza, voglio l’amore senza il peccato mortale della promessa, voglio essere la tua sposa senza il velo infame della purezza, nuda all’altare e la luce di Dio ad avvolgermi le cosce, voglio essere il nido del tuo ritorno, voglio che Giulia sia il nome da covarti in gola prima che si tramuti in sussurro o canto, mai in bugia, voglio le tue dita a sfiorami, sempre, gelose senza possesso, voglio l’amore senza scuse. Voglio tutte le strade che ho perduto, voglio la vita senza rabbia delle comete che ritornano, voglio che inventi per me un calendario nuovo ogni giorno, al mattino, per spezzarlo al buio di notte quando mi cercherai affamato. Voglio tutta la tua fantasia a disegnarmi, voglio una storia per ogni petalo rosso della tua rabbia, voglio essere la tua spada mortale, voglio che tu mi deponga come alla fine di una guerra, voglio essere il sole ad asciugarti il sangue sulle mani, voglio il tuo sangue. Voglio esserci. Per sempre. –
Le parole di Giulia avevano la forza degli alberi giovani, con le radici inesperte affondate su un abisso di paura.
Era la prima volta che osava pensarle, e pronunciarle le aveva richiesto un coraggio che ora la lasciava stupita, un attimo prima che mi si abbandonasse ancora fra le braccia, raggomitolata di schiena contro il petto. La accarezzavo piano, a occhi chiusi, immaginando che le mani lasciassero sulla pelle un’ombra iridescente lieve ad ogni passaggio, immaginando che il mormorìo del suo cuore inquieto si modulasse sulla cura lenta che le stavo adoperando.
Dopo un po’ Giulia mi prese una mano e se la portò sul seno sinistro, con la sua mano la tenne stretta lì, su quel tepore tranquillo che pulsava in profondità, la sentivo sorridere senza vederla, di una serenità che risaliva dalla periferia delle sue vene antiche, richiamata a raduno dalla forza del cuore e di quella stretta che sentivo dolce di rimpianto, ferocia e vendetta.
Giulia sorrideva di nuovo, di un sorriso che il mondo non aveva mai visto. Si girò all’improvviso e si mise a sedere sul letto, al mio fianco, gli occhi negli occhi. Il mondo che avevamo deciso nuovo, intatto da quell’istante e per sempre, iniziò a funzionare con la semplicità di un carillon, con l’aiuto di un semplice bacio fugace che Giulia mi depose sulle labbra.
-Facciamo un gioco-, disse, e con la complicità del mio sorriso stupito incrociò le gambe allineò la schiena a qualche meridiano segreto, si dipinse con le dita sul viso due segni invisibili di guerra e sorrise.
-Facciamo che io ero la Regina di Saba e tu il mio grazioso e innocente Re Salomone-, disse, facendo con gli occhi uno sguardo sbieco più da regina egizia, in verità, ma tutto è lecito in una storia per cui decisi di sorvolare su quel dettaglio.
-Una vera Regina deve essere nuda come la Verità, per il suo Re, ma una corona non mi dispiacerebbe-, e mentre parlava le dita andavano a raccogliere i lunghi capelli neri per comporre rapide un complicato intreccio che la fece somigliare infine a una madonna rinascimentale, con un salto di tempo e storia che mi fece sorridere ancora.
-Facciamo che tu hai una parte importante nel gioco, oggi mi sento buona, e sei diventato, da quel bambino sognante e ignaro che eri, il più grande Re di tutti i tempi. Facciamo che nei ritagli di tempo della tua fantasia hai semplicemente costruito il più fantasmagorico-, disse proprio così Giulia, "fantasmagorico", -Tempio che il popolo avrebbe mai osato immaginare, un posto di luce, oricalco e avorio così bello che anche Dio in persona, notoriamente affatto umile, si sarebbe sentito leggermente a disagio a calpestare a piedi nudi cotanta bellezza.- -Facciamo che sei un Re, e quindi hai tutto, in potenza, ma facciamo che ancora e da sempre ti manca una Regina. Hai uno sguardo lungo, che copre la terra di ambasciatori, spie, telegrafi segreti non ancora immaginati, e quindi facciamo che hai saputo della tua, ma ancora non tua, lo sarà solo se giocherai bene, attento, Regina di Saba. Facciamo che mi inviti con discrezione nella tua umile dimora, diciamo per un cocktail- e poiché ridacchiavo Giulia mi rimproverò con gli occhi soffusi di serietà e di una risata complice trattenuta, invitandomi a darle corda.
-Facciamo che io ero una Regina superba in bellezza, con un cuore disilluso e in attesa, una facciata dipinta di altera bellezza e una sincera avversione per l’etichetta, in special modo per i cocktail party. Anzi voglio svelarti un segreto, o mio Re, avvicinati- e quando con compostezza del busto le porsi il capo per ascoltarla da vicino, Giulia mi sussurrò all’orecchio:- mi piace dormire nuda e molto spesso nei convegni di società, nei dintorni di questa noiosa Età dell’Oro, dimentico di indossare le mutande-.
Giulia mi guardò annuire con serietà mentre la sentivo soffocare una risata impellente, perciò evitai di guardarla per non rompere l’incanto del gioco e mi feci rigido nella mia posa da re. Se l’avessi avuta mi sarei accarezzato pensosamente la lunga barba nera a riccioli impregnata di resine e pagliuzze d’oro.
-Facciamo che un segreto è un segreto-, disse, -e un segreto è curioso di altri segreti, ora sono una Regina curiosa e voglio vedere il tuo Regno, te lo chiedo accompagnandomi con un gesto smorfioso delle mani, come una vera Regina, e tu, grande Re e piccolo uomo, mi dovrai accontentare. Allora facciamo che un corteo di sfarzo, piume e schiavi nubiani lucidi d’olio come ninnoli ci conduca attraverso le strade d’oro, i giardini rubati di peso a Babilonia, gli angoli segreti della tua Città, costruiti con le pietre della luna, dove custodisci in catene animali immaginari, mi piace quel drago che dorme, o mio Re, ma- e qui Giulia a sorridere ancora come il sole, -non avresti qualcosa di meglio da mostrare a una Regina della mia casta?-
-Facciamo che non stai pensando quello che sto pensando io, tu Re illuminato e pensoso, scevro di pensieri impuri, quelli mi appartengono da sempre e sono il mio dono per te, facciamo che vuoi fare colpo sulla bambina che mi hai indovinato dentro, e che dorme da sempre accoccolata nel buio, e quindi ti vedrei congedare il codazzo di comparse da polpettone hollywoodiano per condurmi, me sola e Regina, a respirare di Dio, ai bordi dell’Arca, nel Sancta Sanctorum del tuo tempio di fantasia. Facciamo che hai il cuore sincero e mi dirai, accorgendotene per la prima volta, che quell’immensa meraviglia, quell’eden di luce e di marmo attendeva me sola, la tua Regina di Saba, facciamo che Dio fosse stata solo una scusa del piffero, per i sudditi, per i credenti. Hai costruito questa meraviglia per me, per rimorchiare la più bella donna di tutti i tempi, e ora stai gongolando felice-.
Giulia si stava divertendo, ed era bellissima.
-Facciamo che io creda-, disse, e si fece subito seria, -facciamo che in un lampo io decida di credere, sconfitta dal bianco assoluto della tua anima, mio Re, facciamo di buttare alle ortiche le apparenze dei simboli, questo Tempio non è il segno del tuo amore per me, Esso è realmente Amore, e tu me ne stai facendo dono-. -Facciamo che io creda, e facciamo che dopo un solo respiro di tempo e un giro pensoso a piedi nudi attorno al mio Re, come a valutare il peso di tutto il mondo trascorso finora, io mi avvicini a te, alle tue spalle, e avrei una voce seria e piena di speranze nel momento in cui potrei finalmente liberarmi del peso della mia maschera di Regina capricciosa e farmi donna e parlare al mio unico uomo promesso. Facciamo che tu sentissi le mie parole-. -E’ tutto qui, mio Re? Questo è tutto quello che hai da donarmi? Questo è Amore, Salomone, e io voglio di più-.

Aqaba

Ci guardammo stupiti, io e Giulia, di quella richiesta impossibile, sfrontata, che nella sua semplicità irrideva alle leggi comuni del cosmo di cui eravamo imbevuti.
Ma Giulia aveva la ragione schietta dei bambini che non si accontentano, se l’Amore fosse un Tempio, diceva, la storia sarebbe finita come la luce sfuma all’imbrunire del giorno, irrigidita come un dio da profumare d’incenso in penombra.
Giulia voleva di più.
Non diede tempo al mio smarrimento di cercare una strada possibile, non diede tempo neanche al minimo tentativo di bugia.
E parlò ancora.
-Facciamo che un Re non si spaventerebbe per così poco. Un Re del tuo calibro prenderebbe la sua Regina per mano, per la prima volta prenderebbe la sua mano, e la condurrebbe a piedi nudi verso la più bella spiaggia a Oriente del mondo, sulle sabbie d’oro di Aqaba, il porto dove arrivano le spezie, gli uomini, le storie. Un Re non chiuderebbe la sua Regina in un Tempio ma la porterebbe a passeggio nel mondo-.
-Facciamo quindi che mi conduci a respirare la vita, immersi nella calca di un mercato enorme, sulle rive del mare, in mezzo al popolo accaldato e odorante di carne e vita, intorno ai banchi del pesce secco, fino alla distesa sterminata inebriante dei banchi di spezie. Sono la tua Regina nuda, ora, e non conosco la vita, la mia pelle non odora di nulla, mi insegnerai perché voglio imparare. Non sei stato così stupido, mio Re, hai gli occhi di chi guarda lontano nel buio. Hai fatto venire tutti gli odori del mondo perché sapevi che saremmo giunti fino a qui, un giorno-.
-Facciamo che finalmente parli e mi parli da uomo, da viaggiatore esperto, facciamo che con le dita tu prenda ad uno ad uno i germogli bianchi del gelsomino egiziano, i fiori rossi del cardamomo, una scheggia di cedro verde del Libano-, Giulia parlava e mi porse con un gesto le vene azzurre dei polsi, lasciando esplodere finalmente, provenute da chissà dove, le molecole della stessa storia che mi stava raccontando.
Giulia odorava di quelle spezie al solo nominarle.
-Hai cercato per me le essenze più rare, Salomone, hai interrogato i sapienti, hai sovvertito i popoli, hai distrutto intere città per questa unica rosa di Bulgaria, per insegnarmi il segreto maschile del muschio bianco, per la dolcezza stucchevole della vaniglia, per posarmi sulla lingua una goccia di liquerizia affinchè imparassi a separarla dall’infido coriandolo, dall’arancio, dal mandorlo, dal pepe rosa che accende la lussuria-.
Ad ogni nuovo odore Giulia si protendeva ad offrire un angolo nuovo della sua pelle, mi fece respirare una ad una quelle fragranze mescolandole di volta in volta col calore della sua pelle, dei seni, delle labbra, mi diede la lingua ad assaggiare quarantasette tipi di miele, tutti diversi, spiegandomi, come Salomone spiegava, l’atteggiamento settario delle api e la loro alchimia selettiva.
Diede prova di una sapienza che non si può raccontare.
Io la ascoltavo incantato, la annusavo, e la amavo.
-Facciamo che ad ogni profumo nuovo la mia anima ricordasse una storia, piccolo uomo, il blu del cipresso per le storie degli assassini, la magnolia e il sandalo per le storie di chi attende il ritorno dalla riva del mare, la gardenia e la rosa di Turchia per gli amori delle fanciulle adolescenti, la camelia, il nobile Iris per le ingiustizie e i tradimenti, la lavanda, la salvia, il caffè per le storie della buonanotte, la violetta, l’ambra, il kisu, l’ebano per lo scoramento degli amori perduti, il mirto, i tabacchi rari, lo zenzero, il narciso. Facciamo che io impari tutte le tue storie-.
-Questo richiederà tempo, angelo mio, una vita intera. Saremo affaccendati, vivremo con entusiasmo, e con la foga dei bambini curiosi quando hanno le gote rosse. Il nostro amore ci porterà la grazia della dimenticanza e qualcosa di cui parlare. Per sempre-.
Giulia aveva smesso di parlare, aveva aperto interamente il tempio della sua anima per i miei occhi, perché diventassi il vento a soffiare tra quelle colonne, aveva formulato tutte le domande e aveva trovato tutte le risposte, come una bambina coraggiosa.
Quando venne notte, dopo un giorno intero d’amore profondo, scivolai via dal letto dove dormiva nuda a sognare di chissà quali spiagge lontane, e scrissi la storia di questa storia, le parole erano tutte nuove ora, tutte.
In cambio di qualcosa in più del semplice amore Giulia mi aveva regalato la sua storia per sempre.
Non ci separammo mai più.

giulia

Pachamama

"Ti ho incontrata che eri nuda. Pelle guerriera segnata a morsi di stento alla fine di una lunga guerra. Il primo passo fu, strofinare con forza cenere d’ossa e miele di rose, a richiamare il sangue segreto, scioglierne i grumi feroci che il tempo, il buio, la notte. Che il tempo. Poi venne l’acqua del fiume dai sassi preistorici, ricordi? A separare il primo grado dell’attesa. A galleggiare, bere, riempirsi la gola di ricordi e silenzio. A imparare la disciplina di un nuovo respiro. E allora il breve intermezzo di asciugarti al sole senza coscienza. Solo occhi chiusi e un miliardo di miliardi di biglie rotonde di luce a soffiare via l’acqua in vapore caldo. Che il secondo grado è la separazione della memoria dalla carne. Lo abbiamo fatto bene, ricordi? Perché poi venne la parola. A colmare i vuoti che erano vuoti da sempre. A vestirti di una pelle nuova, bambina. Ogni parola un segno sulla carne, inatteso, indelebile. Parole azzurre sumere dimenticate appena sopra agli zigomi mongoli, parole di fiori secchi attorno agli occhi colmi delle ombre di Babilonia, e la speranza di rifiorire, parole di labbra posate sulle vene dure del collo, a saggiare le correnti del sangue, parole di colomba posata a frulli sulle scapole scarne, parole feroci di denti serrati di fame, ad aprirsi strade su quella schiena dritta di vergine, parole posate di guerrieri, all’alba di ogni eterna morte, a riposare nel solco umido dei seni, parole posate come mani posate come mani strette prima di andare per sempre, parole a spirali segrete di vento a girare girare girarti sul ventre, parole ad affondare, cercare, domandare, trovare trovarti madreterra accogliente. Madreterra accogliente. Parole, infine, a soffiare polvere d’oro blu, brillante, azteco, a cercare lacrime e risa di pianto. Così fu."


Questa storia è inventata. Ma Giulia esiste davvero. Ora dorme e aspetta il suo re.
Questa storia è solo una pallida idea della bellezza che Giulia si tiene a dormire dentro. L’arte è irrimediabilmente imperfetta.
Questa storia è anche un compleanno, da ricordare.