Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, ad acque tranquille mi conduce, su pascoli d’erba fresca mi lascia riposare.

Mi ripetevo parole simili di consolazione quell’unico giorno ogni anno mentre affrontavo la salita verso la collina dove, alla fine di tutto, ti lasciammo riposare.

In quell’ultima settimana che finì una domenica di maggio non avevi più parlato. Ricordo, scrivevi soltanto dei minuscoli biglietti che mi porgevi con un gesto degli occhi lucidi e smarriti. Dei tuoi vent’anni ti erano rimasti solo quelli, e dita leggere come ossa d’uccelli. Il cammino di fede verso la santità delle libellule, ormai giunto alla vittoria, ti aveva lasciato esausta, rassegnata.

–Non ho chiesto io di nascere -, arrotolavi la carta, ne facevi una minuscola pergamena d’amore mancato e me la porgevi.

–Sono una bambina che ha trovato il suo posto in una stanza di luce senza specchi -.

Mi avevi chiesto inavvertitamente amore, fin dal giorno in cui ero inciampato con curiosità nel filo invisibile della tua vita, avevi letto un rifiuto coraggioso sul mio volto, avevi capito, accettato, e avevi deciso.

–Questa è la mia unica vittoria, prometti di conservarla con cura -.

Potevo contare il tempo che rimaneva infilando una mano in tasca a numerare con le dita quei pezzetti di carta.

–Ho lasciato sempre uno spiraglio di porta socchiusa. Ho aspettato -.

Quando avevo saputo che sarebbe stato l’ultimo giorno avevo portato dei cioccolatini a forma di cuore a chiedere ancora speranza, a infilare un piede in quella dannata porta che ti stavi chiudendo alle spalle.

–Non conosco altro che il buio -.

Ho conservato le tue parole in una scatola che tengo vicino alla finestra, sugli intarsi di carta stagnola si riflette il cielo, a primavera.

Dicono che perfino il diavolo abbia compassione delle anime dannate e che per alcune abbia costruito un giardino quieto di una bellezza impossibile, appena più in alto del cielo.