Ho sempre pensato che l’anima fosse una Terra, con i fiumi azzurri e le montagne alte a difendere dal vento, le pianure verdi, i deserti, il mare intorno di piccole onde e rumori di sale e le isole come sogni da immaginare.

E ho sempre pensato che vivere sia: consumare avidamente o lentamente, di volta in volta, un pezzetto diverso di questa Terra, occuparlo, riempirlo, abbellirlo di una bellezza pura, silenziosa, semplice, di piastrelle di carta e vetro, leggere e lucenti.

Ed ora, di sera, guardo le luci verdi e rosse della guerra, le immagini dei bambini che muoiono, delle case disperate e mute che si sfaldano e cedono il passo al nulla e guardo il sangue e le scarpe spaiate abbandonate nella polvere.

E penso che posso dire di essere un paese in guerra, e che anche tu sei un paese in guerra.

Tu che non sai di esserlo, tu che non sai, tu che spezzi il pane e prima di mangiare assaggi senza la fiducia del nutrirsi.

Allora siamo paesi in guerra e questa è la storia che un giorno scriveremo.

E alla guerra ci si va soldati, sempre con la paura di morire e mai, mai senza essere armati, perché le armi e le pallottole e le bombe sono la speranza ingrata e paradossale di sopravvivere, di poter guardare ancora la luce dell’alba e sperare in quel pezzetto di Terra da coltivare.

Dunque, se siamo un paese in guerra le nostre parole sono le lettere bianche dal fronte ricamate sui bordi di strisce oblique rosse e blu a ricordo di un aeroplano, di una festa di compleanno, a sigillare: sono ancora qui che ti aspetto.

E se siamo una storia tu ti chiami Mary, sei bionda, hai un vestito rosso e un golfino azzurrino con le maniche arrotolate fino ai gomiti.

Sei ferma a guardare il cielo con il vetro della finestra che riflette l’acqua, le mani bagnate ad asciugare pomodori rossi raccolti nell’orto, lavati con la cura e l’angoscia del rosso.

Ti chiami Mary e sei muta, di parole necessarie e molte parole da scrivere, di una culla da riempire che appena tornerò ci sposeremo, muta nell’attesa di costruire, di stringere abbracci e festeggiare ritorni, muta ad aspettare.

Stai aspettando.

Perché, quando c’è la guerra l’etica di aspettare vive della legge della guerra.

Aspettare in tempo di guerra non è come aspettare in tempo di pace, ha un senso più profondo: c’è la preghiera muta, in ogni istante che batte, che le pallottole seguano un altro corso, una traiettoria un po’ più imprecisa, che le schegge acquistino la pietà necessaria a che Mary e il suo vestito rosso, un giorno, abbiano sul viso il sorriso del ritorno, della guerra che è finita.

La speranza che la fine dell’attesa non abbia i colori della nostra Patria, una inutile bandiera e una medaglia d’oro, oggetti, mio Dio, in cambio dell’anima, del sangue e del sogno di un pezzetto di quella Terra.

Sarà bello vedere il giorno in cui il paese in guerra tornerà ai respiri cadenzati del fuoco cessato, al riposo dei suoni, al sonno buono senza le sirene notturne che strappano i sogni, senza più attese, senza la paura di dover sperare che a morire siano tutti gli altri.

Perché la guerra non è nemmeno per i soldati.

Ed ha un unico senso: che essa finisca, e che il paese in guerra torni a dormire come un paese di pace.

Questo pensavo oggi, che siamo paesi in guerra che siamo paesi vicini che questa è una storia che Mary un giorno sarà felice che la guerra un giorno finirà.