Il ventitrè maggio del millenovecentonovantadue avevo ventiquattro anni e mezzo, e qualche giorno di meno. Ero a Pisa, gli studi arrancavano, la vita sociale era florida e intensa. Abitavo con mio fratello e con il mio amico Pietro una casa a due piani, in via Livornese, una strada che incrocia l’Aurelia dove dal ponte sull’Arno si disegna dritta verso Livorno. Di notte i tir che la percorrevano in discesa, e di gran carriera facevano tremare le finestre di casa, si dormiva cullati dal rombo dei camionisti avventurosi, insomma. La casa a due piani aveva una scala interna, era senza riscaldamenti, solo una stufa a gas, quando facevamo le feste si riempiva di gente, era piena di gente sempre, dal tardo pomeriggio in poi gli amici arrivavano in bici, senza fretta, si cenava, si giocava a carte, si usciva in giro per la città, tutto quel che ci serviva per riempire i nostri ventanni di libertà. Si leggeva Cuore, il giornale verde che ci faceva sentire resistenti, si resisteva al primo vero tentativo di invasione violenta della cultura tv che poi avrebbe spianato la strada all’avvento dell’untuoso. Sgarbi, Funari, Ferrara, la carne fresca di Non è la Rai all’ora del dopopranzo. Si tentava di resistere. La tv marcava il confine di quello che non volevamo essere, di quello che non saremmo stati, e questo ci piaceva, avevamo un nemico di facciata, sudato, volgare, impresentabile, facile da irridere. Quel pomeriggio di maggio, all’ora che volgeva verso sera, io ero seduto alla scrivania, forse studiavo, e, mi ricordo, il primo ad arrivare fu Roberto, con la sua bici, e un po’ prima del previsto. Era scuro in volto e mi chiese se avevo sentito la notizia. No non l’avevo sentita. Accendemmo la tv dove si svolgevano gli spettacoli barbari del nemico e vedemmo con gli occhi l’evento della mia generazione. Vedemmo la bomba, il cratere, la cronaca, la polvere, lo smarrimento, l’incredulità. Guardammo in silenzio e a lungo, tutti in cucina, alla spicciolata arrivavano pian piano tutti gli altri, e chi arrivava si sedeva e guardava, in silenzio. Perché è in silenzio che capisci, che la consapevolezza ti allarga piano la coscienza e si fa spazio, si trova un nuovo posto dove abitare per sempre. Perché lo capisci che il Paese dove avevi immaginato di vivere, il Paese che stava esplodendo della corruzione, della rivoluzione dei giudici, di quella minima feroce gioiosa speranza che forse qualcosa sarebbe cambiato, che i tuoi ventanni un giorno sarebbero diventati i ventanni dei tuoi figli in un paese senza democristiani, lo capisci che quel Paese ti mostra adesso, mentre tu sei in silenzio con i tuoi amici che vorresti avere per sempre accanto, la sua faccia feroce. Lo capisci che in quel Paese, vive, vige la legge della morte. La pena di morte, è semplice, quella che hai davanti è l’applicazione della legge. E tu sei parte di quel Paese. Questo è l’evento della mia generazione. Un evento senza ritorno. Quella sera mentre le ore passavano e il silenzio non riusciva a smuoversi, il Potere della barbarie televisiva sigillò, se ce n’era ancora bisogno, la sua forza, il signor Frizzi, quella faccia da cazzo che ride sempre, che ancora ride dopo vent’anni, che cazzo avrà da ridere, si scusò perché gli era impossibile rimandare la trasmissione dei giochetti scommessa del sabato sera, e, mentre noi ci guardavamo in faccia esterrefatti, lui condusse la sua penosa farsa di idiote scommesse, grottesche in condizioni normali, e che quella sera nessuno avrebbe avuto neanche la forza di trovare una parola peggiore per definire. Quello fu l’insulto finale, il sale grosso sul sangue che ancora sgorgava, lo sfregio feroce del Potere. Come potrei dimenticare dov’ero, e cosa ho pensato. Quell’estate, per tentativo futile che forse qualcosa ancora ci rimaneva nell’anima da poter essere salvato, quell’estate dopo la seconda bomba che uccise Borsellino, e che non potè violare oltre la nostra incredulità solo perché non ne avevamo più una, decidemmo di andare in vacanza in Sicilia, come per pellegrinaggio, per andare a Palermo, per percorrere l’autostrada della morte, per cercare i segni nel mondo di quel che avavamo visto nella scatola magica. Per vedere l’albero dei bigliettini. Ci rimanemmo quindici giorni, in giro, in lungo e in largo, l’autostrada era stata rimessa a posto, passandoci non avresti notato nulla. Il Potere aveva agito. L’albero era lì, ma gli alberi si fa presto a dimenticarli, le parole, poi, figuriamoci. In quindici giorni di permanenza in quella terra un’ultima cosa ci ferì, aldilà di tutto quel che avevamo subìto. Non incontrammo, mai, una sola pattuglia di polizia. Dico che tutto quello che vedemmo in quei mesi era già successo, in passato, quel che cambiò in noi fu la consapevolezza. Probabilmente quel pomeriggio di maggio segnò, per me e per gli altri, il confine con l’età adulta. Che forse davvero era ormai tempo, ma, in nome di dio, perché così? L’anno dopo, alla fine del millenovecentonovantatre, decisi di lasciare quella città che mi aveva protetto abbastanza per tutti gli anni, e venire a Roma. Lasciai tutti quegli amici, con uno strappo, lasciai tutta quella vita per una nuova. Senza dare spiegazioni, senza mai voltarmi indietro, senza più rivederli, nessuno. Tutta qui la storia di quel pomeriggio. No, lo so, non era un granché, e forse suona un po’ retorica. Per questo a volte, per gioco, e per scherzo, e per noia, inventiamo delle storie. Qualcosa di un po’ meglio delle nostre vere vite.