Ok. Cominciamo dal basso.
Scarpe rosse di vernice col tacco altissimo serrate alte da una fibbia dolorosa.
Alla caviglia sinistra un filo d’oro sottile.
Gambe lunghe affusolate verso l’abisso. Perfette.
Calze color carne a svanire lente come un sogno.
Gonna corta, larga, a piegoline, svasata sulla grazia dei fianchi, pienissimi, belli come l’odore dell’erba dopo la pioggia.
Vita stretta e naturale da perderci il senno degli occhi e il riposo delle mani, per sempre.
Ombelico sfrontato, e a punirlo una goccia d’oro rosso e rubini, una spina d’ansia e d’attesa.
Più su, una maglia di filo, color tortora dicono, leggerissima, e tre bottoni a coprire il peso dei seni e del cuore.
Un filo di cuoio antico a stringere le vene feroci del collo.
Il viso di un pallore ovale allungato verso l’alto dai capelli, neri, lunghi, castigati da una coda spietata.
Del rosso incanto delle labbra non dico.
Poi tutto avviene. Dall’immobilità rassegnata che invade le iridi di un’armata urlante di stupore, ai due fili di lacrime simmetrici, sincroni, lenti, vivi di luce, alla smorfia minuscola all’angolo sinistro della bocca, a quel mordersi le labbra.
Le mani si sono mosse lentamente, senza che la maschera triste facesse più una piega, forse solo un po’ più rigida.
Cos’è quella?
Una pistola?
Piombo caldo a pesare più di un addio?
Non illluderti, bambina. La ferocia non ci è mai appartenuta.
Piuttosto la libertà.
Ora andrò via, questo è un addio e le tue lacrime sono semplicemente belle.
Niente di più.
Ho vinto, e dovrai spararmi alle spalle.
Niente baci stavolta, baby.