Lo sapevo. Che prima o poi arrivava.

Che poi secondo me è proprio una cosa da fare, questa che hai fatto tu. Su qualsiasi argomento troppo bello, quindi, prima o poi, anche su Paz. Questa cosa di dire, cos’è per me, come l’ho incontrato, come gli voglio bene, come mi è entrato nella vita e come mi vive dentro, come un pensiero o un modo di essere o di guardare le cose. Lo senti senza dirlo che da lì vengono alcune forme di come sei, da una frase, da una faccia, da.

Racconto io. E così come racconterò, che ancora non so come fare, non ho mai raccontato di Paz. Non a qualcuno che mi ascoltasse, o che mi leggesse. Solo io, finora, sapevo tutto questo.

E come raccontare.

Inizio dalla fine. Che fa scena, il tempo all’indietro. Anche se non è scena che voglio fare.

Pompeo.

Lo danno non ricordo più dove e c’è Stefano Benni che lo recita. E ci porto M., che è un po’ l’amica che non sa nulla di Paz, forse appena qualcosa, ma d’altronde ha altre qualità.

Le voglio un bene tiepido che attende, la porto a conoscere Paz, quello che considero il Paz assoluto, lui, tutto, in quella storia. Pompeo.

Lo spettacolo è come lo aspettavo, come quando ti pestano e tu preghi preghi preghi che ci sia un colpo più forte, l’ultimo, che dica con forza, ecco io sono l’ultimo quello che fa davvero male, però poi basta, ti lascio a piangere. E Pompeo è così. Fino all’ultimo cazzotto alla bocca dello stomaco. Se non conosci dici che sto drammatizzando, ma tu lo sai che non è così.

Dopo lo spettacolo le racconto qualcos’altro, di Paz, e poi però, che le serate pedagogiche non mi sono mai mancate, per completare, sotto casa sua le porgo il mio, –il mio-, volume di Pompeo. Le dico che può leggerlo, che deve, che lo deve in qualche modo al mondo, a lui, a Paz, allo splendore che era. So che lo farà.

Non c’erano altri calcoli, non quella sera, che la notte era un po’ più buia comunque dopo la messa in scena bella e terribile che ne fece Benni, e non c’era altro da guardare.

Quel che non sapevo è quel che non sai mai, il futuro. Che un po’ di tempo dopo, rivedendo M., e mentre lei parlava, io pensavo e pensavo, mentre lei parlava, che quella era l’ultima volta che la vedevo, per sempre. E che lei non lo sapeva in quel momento, e io sì. E che non lo avrei detto, non in quel momento. E pensavo che non essere consapevoli di una cosa così, nel momento in cui accade, è un gran peccato, aldilà degli eufemismi.

Solo qualche tempo dopo realizzai che con M. era andato via, insieme al resto, anche il mio albo di Pompeo. Dovessi valutare con un criterio di scienza se e quanti grammi questo fa male, non lo so.

E chi cazzo sono. Rubbia?

Ma dopo la fine, se giochi al tempo all’indietro, viene l’inizio.

E viene il giorno in cui per la prima volta, da studente di ventanni, andai da Pisa a Lucca, per la mia prima Fiera del Fumetto. Una cosa da iniziati, con l’amico protonerd che sa tutto e tu nulla e ti porta, a cercare tesori di vecchiume, che ancora, so che racconto come i vecchi raccontano della guerra ma la mia generazione una guerra non l’ha avuta in dono e quindi mi fotto a raccontare di surrogati, dicevo che ancora, nei tardi anni ‘80 Lucca non era diventata un circo di bamboccioni con l’iphone che sbavano per delle penosissime cosplayer.

Ai miei tempi Lucca era talmente una leggenda che, alla mia prima volta, e me la ricordo finché campo, come un tatuaggio interiore, ci fu questa scena, nei miei occhi: uno stand affollato fino all’inverosimile con dentro un ragazzo che vidi solo da troppo lontano, curvo a disegnare, magro, una gran testa di capelli neri e ricci.

E però l’amico sapiente che sapeva e che era grosso e sapeva di gomiti e folle si fece spazio e sparì nella calca.

E alla fine con questa cosa tornammo, che già era un concetto che non avevo mai incontrato, il disegnetto del disegnatore dal vivo. Ma che il disegnatore, quella volta e per sempre era, quando chiesi chi era, e la risposta fu: Andrea Pazienza. Solo questo, una vita nome e cognome.

Il disegnetto, se te lo stai chiedendo non lo so più dove sta, era un esile tratto di penna a disegnare il profilo di una donna.

Da allora il tempo cominciò a scorrere di nuovo in avanti, che poi sì hai tempo di comprare tutte le sue storie e riderci e piangerci e tornare a Lucca e sperare che.

Ma il futuro ti fotte.

Paz lo persi due volte. Ma la prima fu peggio.

Ora sei tu a sapere.

E guarda, qualche volta mi immagino che vederlo fu un sogno, non ho più neanche le prove, e vorrei che lo fosse stato per non voler essere smentito o rassicurato, che davvero sia successo. Perché se tutto quello che ho raccontato non fosse successo, ora non avrei nulla da raccontare e potrei chiederti con l’anima candida di chi chiede: Andrea Pazienza?

Potrei fare questa domanda senza peso.

E invece no.

So che è una storia triste, ma so che, in qualche modo inspiegato, ti ha rallegrata.

E poi, che mi fa ridere tantissimo quando il suo papa guarda le stelle e pensa –ih che vado a pensare- se Dio esistesse veramente pensa.

E poi Astarte, è l’unico cane al mondo che mi piace. Lo vorrei.

E poi, non c’entra veramente un cazzo ma, tanti anni fa frequentavo un sito di scrittura e c’era un tipo odioso che scriveva MALISSIMO, e io lo odiavo perché stava lì solo per rimorchiare, e ci litigavo e non scrisse mai niente di appena meglio di penoso, ma una volta sola, il titolo di un suo racconto era: la rimozione dei tatuaggi interiori. Che trovo un titolo superbo, per sempre. Questo per dire che non è che mi piace farmi bello con le parole degli altri.

Forse ti sei messa a ridere, adesso, che sei stata zitta finora. Sta zitta quando ascolta, stazzitta.

Forse erano troppe parole. Ma ormai stanno qui. E poi, in fondo, è colpa tua.

E, no, non l’ho ricomprato più, Pompeo. E adesso vado fuori a fumare, ci deve essere un bel freddo.

‘Notte.