Antefatto:

Quando torno qui al nido la mia mamma non esce quasi mai di casa, per non perdersi neanche un minuto del prezioso tempo che le viene regalato. Allora risulta strano sentirla uscire di soppiatto la domenica mattina presto, e poi tornare sempre alla furtiva, con un’aria da indiano furbo che è meglio non indagare.

Saranno le otto del mattino, sarà domenica, ma l’Africa si è già svegliata da un bel pezzo e te lo dice a vampate aride, decise. Mi aspetta un secchio di vernice e un balcone di ringhiera lungo come la fame, di quelli che girano intorno alla casa, ma io so che anche il sole gira, e allora d’istinto scelgo l’angolo giusto, così l’ombra potrà accompagnarmi durante il lavoro. Ho visto giusto e l’ultima pennellata cadrà esatta nell’ultimo spicchio d’ombra fresca. Il tempo di un sorriso, e basterebbe questo giochetto da antico astronomo per campare un altro giorno.

Ma.

Nel frattempo:

A metà mattina scendo a bere una brocca di acqua ghiacciata, come fanno gli operai, quelli veri. Mentre sorseggio rumorosamente mi tocca questo frammento di conversazione al telefono fra mia madre e quel pirla di mio fratello che sta facendo le vacanze da fighetto in qualche posto del cazzo: -Tu non hai idea del pranzo che ti perderai oggi.- Sarà il caldo, sarà il resto del lavoro che aspetta, ma annuso solo un po’, non sento nulla di particolare, e allora me ne dimentico.

La mamma mi dice che ci sarà anche lo zio a pranzo, il fratello di papà. Registro con un grugnito, ma mi fa piacere, lo zio è un tipo silenzioso. Bene.

Il menu:

La soppressata, il pane caldo di forno, il vino rosato in brocca, infinitesimamente frizzante. Papà fa la storia della soppressata, che è di quelle piccole tanto da poter essere confusa con una salsiccia, e poi è stata conservata nel grasso, grasso senza sale, per poter rimanere morbida. Io vorrei dire che sembra conservata nell’olio, perchè ha una piccola lacrima al centro di ogni fetta, ma la mamma aggiunge qualcosa sulla vecchina che ce l’ha regalata, e allora taccio e ascolto. Il pane del mio paese è il pane più buono del mondo. Gli altri si fottano ma proprio non ce n’è per nessuno. Se fossi davanti al plotone d’esecuzione come Aureliano Buendìa, dopo il mio episodio del ghiaccio mi verrebbe da chiedere un pezzetto di quel pane caldo. Il vino è un fottuto vino dei Castelli Romani, proprio un vino da brocca, e mio padre si becca un rimprovero.

Le tagliatelle alla boscaiola. Con i funghi porcini. Ad agosto. Non i funghi secchi. Porcini freschi, grossi, prepotenti, profumati, morbidi, vagamente dolci. Da dove cazzo saltano fuori, chiedo alla mamma. Lei dice: -sono uscita presto per andarli a cercare-. Ora io non lo so se lei si è infilata fisicamente in un bosco all’alba per cercarli, ma mi piace pensarlo. E allora non chiedo più nulla. E mangio. Le tagliatelle sono fatte in casa, religiosamente con le sue manine sante. I pomodori per il sugo sono dell’orto di papà. Mi sento al sicuro.

Salta fuori, finalmente il vino rosso di papà, una cosa sua, della sua vigna. Papà possiede una vigna verticale. Quando mi portò a vederla la prima volta gli dissi -ma hai comprato un muro?- Per la vendemmia servono gli equilibristi. Ma si affaccia su una valle in fondo alla quale scorre un fiume allegro e serio, e su quel muro batte il sole sempre. Sempre. Il vino è magnifico.

Le frittelle. Il fungo porcino fantasma, sempre lui, o uno dei suoi fratelli, che ne so, tagliato a fette larghe, immerso nella pastella d’uovo e poi fritto in padella. Frittelle di funghi. Mai assaggiate. Mai. Non riesco a dire nulla. Mangio.

Le polpette di carne al sugo. La mia mamma di solito fa le polpette fritte di carne in bianco, e poi di forma oblunga. Ecco, le polpette di mamma sono oblunghe, di qualsiasi tipo esse siano. Poi fa anche i polpettini, piccoli e tondi. E ci sta. Ma le polpette di oggi sono al sugo, bollite, tonde. Tonde? Tonde. E buone. E mangio.

La parmigiana di melanzane. Che qui a casa è come se fosse un digestivo. Non si può dire che le melanzane sono dell’orto di papà, perchè è un segreto. Lo zio non deve saperlo. Quindi senti nell’aria che c’è una storia che non verrà raccontata. E allora taci. E mangi.

L’anguria. E qui è ammesso ufficialmente qualsiasi aneddoto. Si dispiega la sapienza, su come fare a sceglierle, su come non ci sono più le angurie di una volta, le stagioni? ma no, Signora mia, le angurie. E sulle leggendarie angurie del medioevo, enormi rosse succose, e via così. L’anguria, per inciso, fa schifo.

Le pesche a fette dentro al bicchiere col vino. Cosa nostra. Mai piaciute.

Il gelato. Che storia. Qualche giorno fa ho confessato alla mamma che preferisco il gelato al gusto di frutta, il che ha scatenato l’inferno. Tre vaschette di gelato alla fragola per tre giorni consecutivi. Se timidamente dico che magari esistono che so altri gusti sai cosa succede? Che lei torna a casa con una vaschetta di -fragolaepistacchio-. Ma? Che gusti hai comprato? -fragolaepistacchio-. Giuro è da quando avevo tre anni che non mangiavo il pistacchio. Non so neanche che gusto abbia. Ma poi il pistacchio è un frutto? E’ verde questo sì. Mi ricordo che prendevo il cono fragola e pistacchio. A tre anni. La fragola per il colore, il pistacchio perchè era bello dire la parola. Pistacchio. Bella. Io e la mamma ridiamo quando papà porta le coppe colme di gelato rosso e verde. Sembra perfino buono, il pistacchio.

Caffè.

Crema di limone. Neanche a dirlo la prepara la mamma con le sue mani. E adopera dei limoni buonissimi, della Sicilia, trafugati di notte da una mia cugina mezza delinquente che bada ai tossici. Sarà il gusto del proibito, ma il profumo di quei limoni, piccoli e verdissimi, è unico.

Basta così.

E’ stato un pranzo magnifico. Non so cos’è ma se ci ripenso mi viene da piangere.

Da qualche parte devo aver sentito dire che il cibo è cultura. Che cazzata. Ma forse il significato era un altro. Che -cultura- fosse tutte le storie che vengono raccontate. E che da quel momento ci appartengono per sempre.

(a mia madre, e al suo cuore)