Dolores e il silenzio
di quella schiena nuda
bianca di paura a perle sottili

Stai respirando pianissimo in equilibrio sull’orlo del sonno. Ti ho rassicurata con gli occhi, – sognerai di pane caldo e giocattoli di legno, bambina – .
Mi hai lasciato il testimone del pianto con un sorriso timido, quasi di scusa.
Niente scena. Questa è la vita. Che scorre e fa male.
Piangevi a piedi nudi e mi raccontavi del sangue di vivere.
Tu piangevi.
E io pensavo alla difficoltà del cuore nel cercare nuovi modelli di paura.
Sono arrivato nella tua vita con un sufficiente discreto pudico borghese modello di fottuto quieto vivere. Disincantato avresti detto. Anche. E anche attento, pietoso, comprensivo, paziente.
E tu.
Mi hai preso le mani e le hai affondate in una pozza di sangue caldo. E gli occhi dicevano – guarda, ti prego -.
Ho visto quel sangue che viene da lontano, da una notte nera in una città immensa, dai semafori gialli sotto la pioggia, dai marciapiedi deserti, dal vento freddo visto dai balconi dell’ultimo piano.
Le mani nel sangue.
E il cuore che respira fatica a cercare ragioni.
C’è una ragione per ogni paura che torna, Dolores. Abbiamo paura di restare seduti attorno a un tavolo in festa. Abbiamo paura della fratellanza, dell’amore. Di sciogliere l’anima in lacrime davanti allo specchio del mondo.
Abbiamo paura che non guariremo mai più.

Lì dove portavi
quelle ali dalle piume preziose
è rimasta una cicatrice
lieve.
Non fa male ormai
ma so che
rabbrividisci
quando la tocco
lieve,
e ridi come fosse solletico
e ti sottrai con
un gesto da gatto.

La frusta invece ha lasciato dei segni per sempre. Invisibili.
Sei scivolata in un sogno quieto da alveare d’inverno, ti sento respirare, e di quel respiro ne hai fatto vapore caldo sul vetro.
Sbuccio un’arancia, ho sete.
Infilo parole sulla punta di un ago, con prudenza.
E piango. Così deve essere.